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4 maggio 1949, omaggio al Grande Torino di Ferruccio Novo

La tragedia di Superga che portò via una delle più grandi squadre del calcio italiano

Quando s’affaccia lento e silenzioso il crepuscolo sulla collina che sorregge quasi addormentata la Basilica di Superga, la terra s’abbandona sibilante al buio, accompagnata dalla brezza che spira leggera. Quando si avvicina il tramonto, ogni tifoso del Torino posa lo sguardo su quella collina, con gli occhi e con il cuore, salutando l’anima dei propri eroi, la cui presenza si può ancora scorgere fra gli abeti dal verde vivo. Chissà se l’eco dei loro pensieri possa davvero raggiungere le vette del cielo. Lassù, dove vive una squadra invincibile e maestosa, che intatta e mai scalfita continua a scaldare il cuore malinconico.

Negli ultimi mesi del 1939 in Italia si potevano quasi ascoltare i tonfi e le paure della guerra. Nell’estate di quell’anno, Ferruccio Novo era diventato Presidente dell’AC Torino. Un imprenditore rampante con una vita dal forte accento granata, da giocatore prima e da consigliere poi. Fu lui a costruire la squadra più leggendaria della storia del calcio italiano, fin da quelle 55 mila lire spese per portare al Filadelfia dal Varese un giovane 18 enne di nome Franco Ossola. Arrivarono negli anni successivi Ferraris II dall’Inter, splendida ala sinistra; dalla Fiorentina Romeo Menti, veloce ala destra; e poi Borel, Bodoira, Gabetto.

Alla fine della stagione 1941-1942, poi, in un Venezia-Torino, Novo rimase incantato: aveva appena visto all’opera una mezzala sinistra dal piede poetico, dallo sguardo fiero e dall’aura già da eroe epico. Si chiamava Valentino Mazzola, portava il 10 sulle spalle con la disinvoltura e con la classe di quei campioni che non si vedono così tanto spesso sui campi di calcio. E poi c’era Ezio Loik, ala destra che aveva un talento quasi misterioso e che durante la partita aveva fatto impazzire la difesa granata. Meraviglia. Si scoprì che su di loro c’era anche la Juventus, che però esitava nel chiudere il doppio affare. Novo giocò d’anticipo, come tante volte aveva fatto per portarsi a casa i giocatori migliori. Il Presidente entrò negli spogliatoi del Venezia: pochi sguardi d’intesa bastarono. Nel 1942 la Roma vinse il primo Scudetto della sua storia, ma ormai le luci stavano per illuminare quell’infinito mare granata che si preparava a raggiungere ogni orizzonte. Mentre l’Italia veniva dilaniata dalla guerra e dai suoi orrori, vedeva l’alba il Grande Torino.

Dal 1943 al 1949, cinque Scudetti consecutivi, una Coppa Italia, 19 vittorie interne su 20 partite disputate nella stagione 1947-1948, con 39 punti conquistati sui 40 disponibili, record di reti (125) in un singolo campionato, 408 gol segnati complessivamente nei cinque anni. La lista dei record è fin troppo lunga per essere racchiusa in poche righe. I numeri, però, non bastano per raccontare il poema del Grande Torino. Bacigalupo, Ballarin, Maroso (o Tomà), Grezar, Rigamonti, Castigliano (o Martelli), Menti, Loik, Gabetto, Mazzola, Ferraris II (o Ossola). Nel cuore degli anni ’40 leggere questa formazione era quasi una sentenza. Al Torino, come in Nazionale. Perché l’11 maggio 1947 erano tutti loro a vestire la maglia azzurra nel 3-2 contro l’Ungheria, a eccezione di Bacigalupo, al quale Pozzo preferì Sentimenti IV, portiere della Juventus.

Il Filadelfia viveva pomeriggi d’incanto. Mai si era vista una squadra così perfetta, così armoniosa. Invincibile. Andare allo stadio era un continuo appuntamento con il destino. Spesso, i giocatori attendevano che dalla tribuna di legno Oreste Bolmida, un ferroviere che non si perdeva una sola partita, suonasse la tromba. Era il segnale. Valentino Mazzola si rimboccava le maniche, i compagni capivano: iniziava il quarto d’ora granata, e non potevi fermarli. No. Potevano segnarne 3, 4, 5 o anche più. Ed era una festa.

A fine aprile del 1949, il Torino aveva ormai quattro punti di vantaggio sull’Inter, dopo lo 0-0 dello scontro diretto a San Siro a cinque giornate dal termine del campionato. Il quinto Scudetto consecutivo era ormai una formalità, una sola firma da mettere sul libro della storia. Una stagione lunga, iniziata per la squadra di Lievesley con la tournée brasiliana contro Palmeiras, Corinthians, San Paolo e Portuguesa. L’eco delle vittorie del Grande Torino era arrivato fino in Sudamerica, e nella patria del futbòl non volevano perdersi per nulla al mondo una tale meraviglia. A fine febbraio, dopo una partita vinta dall’Italia per 4-1 a Genova, Valentino Mazzola aveva stretto amicizia con Francisco “Chico” Ferreira, capitano del Portogallo e stella del Benfica, che pensò di invitare il Toro per una partita in suo onore in programma a Lisbona per il 3 maggio. Un grande prestigio, per Valentino e compagni, che non esitarono ad accettare l’opportunità di affrontare il grande Benfica.

Il giorno stesso della partita, il trimotore Fiat G.212 partiva per Lisbona. Sull’aereo, oltre alla squadra, all’allenatore Lievesley e al direttore tecnico Egri Erbstein, c’erano anche alcuni giornalisti: Renato Casalbore, fondatore di Tuttosport, Renato Tosatti, che aveva dato vita alla Gazzetta del Popolo, e Luigi Cavallero, direttore de La Stampa. Non volarono per il Portogallo, invece, Tomà, difensore bloccato da un infortunio, e Renato Gandolfi, il secondo portiere, al quale venne preferito Dino Ballarin, fratello di Aldo, il terzo. Doveva esserci anche Niccolò Carosio, storica voce del calcio italiano negli anni a venire, ma rinunciò per la cresima del figlio. Una folla di 40 mila spettatori nello stadio Nazionale della capitale acclamava entrambe le squadre, godendosi una partita incredibile. Il Benfica vinse per 4-3, prima di onorare il grande avversario, pronto a tornare a casa.

La nebbia che avvolgeva le colline intorno a Torino era fitta, non si vedeva a pochi metri. Mancavano pochi minuti all’atterraggio. Ma l’orologio si fermò per sempre alle 17.05 di quel 4 maggio 1949, quando l’aereo si schiantò ai piedi della Basilica di Superga. Nessuno riuscì a sopravvivere. Quella squadra aveva dominato il mondo, aveva catturato sogni. Aveva fatto parte della vita di tutti, segnando anni indimenticabili. Si spegneva, come in un soffio di vento, la vita degli eroi del grande Torino, mentre in quell’istante iniziava il mito, la leggenda che non sarebbe mai appassita. Il ricordo di quell’orgoglio tutto italiano sopravvive ancora oggi, fra i fili d’erba del Filadelfia, su quelle tribune che solo in apparenza sembrano lasciate in abbandono. Lì e sulla collina di Superga si conservano le anime fiere di quei ragazzi che ogni anno aspettano la propria gente. I tifosi del Toro anche quest’anno ci saranno, non mancheranno di leggere i loro nomi e di ricordarli con commozione, rispetto, amore. E che possa ancora, anno dopo anno, suonare la tromba di Oreste, e che Valentino possa ancora rimboccarsi le maniche. Immaginarsi un quarto d’ora tutto tinto di granata, per sentire il cuore ruggire e capire che il Grande Torino non è mai morto.

 

 

 

 

 

Fonte: Gianlucadimarzio,com

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