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A 400km da casa. Il Dnipro che gioca a Kiev, l’ennesimo caso di un calcio piegato alle logiche della guerra‏

Anticamente in Grecia ad ogni Olimpiade le varie poleis sospendevano qualsiasi guerra. Era la cosidetta “tregua olimpica”. In realtà non è che si interrompeva qualsiasi azione bellica, questa è una delle tante distorsioni storiche che ci sono state tramandate. Si sospendevano solamente tutte le operazioni militari nelle vicinanza delle città di Elis, la sede delle olimpiadi antiche, per permettere agli atleti di recarsi in sicurezza ai giochi. Il mito della “tregua olimpica” ha comunque resistito nel tempo e, spesso e volentieri, è stato usato come termine per paragonare la purezza (e, passatemi il termine, elevatezza) dello sport dell’antichità nei confronti di quello moderno, troppo spesso subordinato alle controversie e alle diatribe, diplomatiche e militari, tra gli stati.

Il Napoli affronta il Dnipro. L’andata sarà al San Paolo, il ritorno a Kiev. Il club ucraino infatti, già da un anno, non gioca più nella città di Dnipropetrovs’k, bensì nella capitale ucraina, a causa dello stato di guerra nell’Est del paese. Conflitto scoppiato un anno fa a causa del cambio di governo in Ucraina che ha portato le popolazioni di lingua e cultura russa dell’Est a contestare la scelta filo-occidentale del nuovo governo di Kiev e a cercare l’unione politica con la Russia (cosa che in parte, con la Crimea, è già avvenuta).

Cosa comporta questo per il calcio ucraino? Tanto perché oltre al già citato Dnipro, prossimo avversario degli azzurri, ha traslocato a Kiev anche un’altra gloriosa squadra del calcio dell’Est lo Shakhtar Donetsk, in attesa che la situazione si faccia più sicura e più chiara. Non dimentichiamoci che questa guerra ha inoltre impedito l’accoppiamento, nei turni precedenti della competizione, tra le squadre ucraine e quelle russe. Divieto che, con l’eliminazione dello Zenit San Pietroburgo ai quarti, è caduto, evitando così accoppiamenti obbligati in semifinale.

Purtroppo il caso ucraino è solo l’ultimo di una lunga serie di spiacevoli eventi che collegano il calcio con le guerre. E non bisogna neanche andare troppo indietro nel tempo per trovarne altri. Qualche mese fa, e tutti se lo ricordano, il celebre drone di Belgrado, fatto librare in cielo da albanesi con sopra raffigurante la bandiera della “grande Albania”, portò alla sospensione del match Serbia-Albania, con la conseguente riemersione dei conflitti etnici (mai troppo sopiti) tra le diverse popolazioni che hanno, per un decennio, insanguinato i Balcani.

Restando in tema Balcani come non citare gli incidenti del ’90 tra i tifosi della Dinamo Zagabria e quelli della Stella Rossa di Belgrado. Preludio alla guerra che vide contrapposti i croato-cattolici e i serbo-ortodossi solo qualche mese dopo, con formazioni paramilitari imbottite di ex ultras.

Senza voler iniziare a scomodare i territori extraeuropei un altro caso in cui le tensioni e la guerra influenzarono pesantemente anche il calcio fu quello dell’Irlanda. L’indipendenza, solo di alcune contee a maggioranza cattolica, arrivò nel 1921, ma almeno fino agli anni ’50 sull’intera isola d’Irlanda (sia quella indipendente sia quella ancora sotto il governo britannico) agivano contemporaneamente due federazioni separate, una a Dublino e una a Belfast. Entrambe presentavano nazionali chiamate Irlanda ed entrambe convocavano giocatori provenienti da tutta l’isola. Fu solo con il diktat della Fifa, che peraltro ufficializzava una situazione de facto, che le due federazioni cominciarono a selezionare solo i giocatori delle rispettive contee e a chiamare le loro squadre Eire e Irlanda del Nord.

L’Italia, come quasi tutti i paesi del mondo, fu coinvolta nelle brutalità della Seconda Guerra Mondiale. Ed anche il calcio ne risentì. Dopo l’armistizio dell’8 settembre ’43 il paese si ritrovò diviso in due. Al Nord i tedeschi e la Repubblica di Salò, al Sud gli Alleati e il Regno del Sud. In quei tragici annisi giocarono diversi campionati, perlopiù su base regionale. In due anni ci furono ben 12 tornei differenti. Stranamente la Figc riconosce come legittimo solo il Campionato Alta Italia del ‘44, vinto dallo Spezia, a cui fu consentito nel 2002 di utilizzare uno Scudetto celebrativo, mentre considera come tornei non ufficiali tutti gli altri, rifiutandosi di riconoscere i titoli di squadre come Juve Stabia e Salernitana.

Ma se pensate che sia solo il calcio a doversi adeguare alle turbolenze politiche siete fuoristrada. Capita anche il contrario, cioè che siano le guerre a scoppiare perché qualcosa va storto in una partita di calcio. Non ci credete? Nelle qualificazioni per Messico ’70 finirono per affrontarsi Honduras ed El Salvador. A quel tempo la tensione tra i due paesi era altissima, l’Honduras aveva appena espulso 300 immigrati salvadoregni e le tensioni politiche finirono per riversarsi in campo. L’andata, giocata in Honduras e vinta dai padroni di casa, vide minacce ed assalti al pullman del El Salvador. I salvadoregni giurarono vendetta e al ritorno, in un clima da vera e propria guerra con tre morti e diversi feriti, fu necessario l’intervento dell’esercito per far giocare la partita (vinta stavolta da El Salvador). Si dovette quindi procedere allo spareggio, a Città del Messico. Qui, nonostante le precauzioni della polizia messicana, le due tifoserie vennero a contatto. Scontri, tafferugli, auto incendiate, tutto a fare da cornice ad una partita equilibratissima. L’Honduras perse sul campo, ma la sera stessa della partita, in un clima di indicibili violenze verso gli immigrati salvadoregni, dichiarò guerra a El Salvador.

Fortunatamente la guerra durò solo 100 giorni e si concluse con un nulla di fatto. Ma l’eco mediatico delle violenze che precedettero la dichiarazione di guerra fu tale che, nonostante i motivi del conflitto fossero legati più alla sfera economica che a quella sportiva, il giornalista Kapuscinski la definì “Guerra del Pallone”.

Chiudiamo col caso della Palestina. Qui, benchè già dagli anni ’30 fosse attiva una nazionale di calcio, le vicende dei vari conflitti arabo-israeliani hanno pesantemente influito sulla sua storia. Fino al 2008 la nazionale palestinese si allenava in Egitto e giocava a Doha. Solo negli ultimi anni i palestinesi hanno potuto, pur tra mille difficoltà, rivedere la propria nazionale giocare “in casa”. Ma i problemi sono ancora tanti e la normalità è un concetto tutt’altro che ovvio. Il calcio palestinese infatti rispecchia ancora oggi la difficile situazione politica e il persistente stato di tensione con Israele. In Palestina infatti si giocano due campionati distinti, uno in Cisgiordania ed uno a Gaza, vista la sostanziale impossibilità per i palestinesi di raggiungere l’una o l’altra zona.

Dopo questa carrellata, che purtroppo è solo parziale, di guerra che influenza il calcio, restiamo sempre in Palestina/Israele per dare un lieto fine a quest’articolo. Qui, da diversi anni è attiva una squadra, il Bnei Sakhnin. La particolarità di questa squadra è quella di essere la principale israeliana a tesserare anche giocatori arabi. Ed anche sugli spalti, benchè inizialmente fosse una squadra tifata solo da arabi, si assiste ad una comunanza tra arabi ed israeliani che non ha altri risconti nel paese.

A dimostrazione che il calcio, benchè certe volte la politica lo porti a dividerci, resta e resterà sempre uno sport di unione

 

Servizio a cura di Giancarlo Di Stadio

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