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Da Lippi a Guardiola, quelli che staccano a causa dello stress

Ora molti tecnici vivono sull'orlo di una crisi di nervi

In quel guscio d’una precarietà ineguagliabile, uomini sull’orlo d’una crisi di nervi s’aggirano stritolati dall’ansia e dallo stress: e in quest’universo famelico, un frullatore incontrollabile, la resistenza ad oltranza cadde un bel giorno, nel febbraio del ’99, roba del secolo scorso e però ancora attuale. Il precursore (e chi sennò?) fu Arrigo Sacchi, che stravolto e comunque felice, lesse poche righe e si congedò liberandosi da quel macigno o magari da un demone che pareva lo stesse possedendo: « Da questo momento non sono più l’allenatore dell’Atletico Madrid. Sono sfinito. Lascio per sempre, non farò più l’allenatore: non ho altro da dire ».  Sopra la panca, si campa malissimo: e buttarla banalmente sui rischi d’un mestiere ch’è comunque strapagato, ridurrebbe l’analisi a fenomeno da osteria. Il calcio del Terzo Millennio è diventato una splendida ossessione, un rito praticamente quotidiano che si spalma dal lunedì alla domenica, tra anticipi e posticipi, appuntamenti a tavola per cena ed ora anche a pranzo, campionati e Champions ed Europa League che esaltano oppure deprimono e comunque sono lì a pressarti: un contenitore stracolmo che alla distanza, e in assenza di soddisfazioni, può esplodere.

QUELLI CHE… – Pep Guardiola se n’è andato a New York, eppure la vita (professionale) gli ha sorriso, eccome: ma la Spagna consuma (quasi) quanto l’Italia, con radio che affollano l’etere a qualsiasi ora del giorno e pressioni che si trasformano in incubi indomabili.  La solitudine è uno stato d’animo che appartiene agli allenatori, soltanto a loro, parafulmini a prescindere: Francesco Guidolin, quest’estate, s’è presentato in video con il volto bianco, stranito dentro e anche fuori, e per poco non ha alzato bandiera bianca, dopo l’eliminazione dagli «spareggi» per la Champions. « Forse non sono adatto ad allenare». Lo stesso è accaduto a Roma a Luis Enrique, tempo per pensare e ripensarsi. Il disagio d’una sconfitta, le luci della ribalta che ti accecano e finiscono per mandarti in tilt, la convivenza inevitabile con lo stress che non ha evidentemente frontiere: perché se Marcello Lippi pensò ch’era arrivato il momento di defilarsi dopo aver vinto (addirittura) un Mondiale, al termine di un’estate – quella del 2006 – dalla quale uscì saturo dei veleni dello scandalo scommesse, Louis Van Gaal, profeta olandese di stanza in Germania, scese dalla panchina del Bayern Monaco e preferì starsene in compagnia dei propri pensieri sino a quando non è arrivata una spremuta d’orange a dissetarlo, a rimetterlo in pace con se stesso, a sfuggire a quel clima da ultima spiaggia avvertito perennemente sulla propria pelle. Un’onda e via: e ti porta via pure le ultime resistenze.

Fonte: Corriere dello Sport

La Redazione

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