Il 6 settembre 2011 attorno ad una tavola imbandita hanno festeggiato il trentennale dal primo titolo mondiale: oro nel due con a Monaco di Baviera. Poi ne avrebbero conquistati altri sei con due argenti e un bronzo. Senza dimenticare i due titoli olimpici a Los Angeles e Seoul e l’argento di Barcellona. Wikipedia dedica una pagina ai Fratelli Abbagnale come fossero una persona sola, perché loro erano una persona sola. Oggi Carmine compie cinquant’anni.
Come si definirebbe?
«Con un vecchio detto napoletano».
E cioè?
«Ogni scarpa diventa scarpone».
Ma lo scarpone lo sa che lui, il fratello Giuseppe e Peppiniello Di Capua rappresentano ancora nell’immaginario collettivo il canottaggio italiano?
«La gente ci riconosce ancora nonostante sia passato tanto tempo e questo fa piacere. Ci guardano come supereroi e a volte resto sorpreso anche io. Nella nostra fascia di età siamo ancora popolari. Per i più giovani un po’ meno».
Ma lei si sentiva super eroe?
«Non scherziamo, ho fatto ciò che mi piaceva fare e la cosa più bella è che a fine stagione siamo arrivati sempre a quei traguardi che ci prefiggevamo di raggiungere ad inizio anno».
La vittoria più bella?
«Seoul ’88. Non solo perché ci siamo riconfermati, ma perché ha vinto anche Agostino. Una famiglia intera sul tetto del mondo».
Quando è salito in barca per la prima volta si aspettava di vincere tanto?
«L’ho fatto a 15 anni e mezzo. In quel periodo l’Italia nemmeno arrivava in finale, figuriamoci se speravi di vincere un mondiale».
Una definizione per suo zio, il dottor La Mura, mentore ed allenatore del due con più vincente della storia.
«Maestro, padre, sognatore, tecnico d’eccezione».
Una per suo fratello Giuseppe.
«La determinazione».
Una per Peppiniello Di Capua, il timoniere.
«Un furetto».
Come mai non è rimasto nel mondo del canottaggio?
«Ho smesso dopo Atlanta ’96. Poi quattro anni da allenatore. Ma svegliarsi alle cinque di mattina per tornare la sera e non vivere la famiglia era troppo. Le mie figlie non avevano papà».
In casa Abbagnale è impossibile resistere al richiamo del canottaggio?
«È una gioia, ma anche un fardello che pesa. Mia figlia Virginia, diciassette anni, ha cominciato e poi smesso. Chiara, di dieci, si è avvicinata ora. Ma le lascio fare ciò che vuole. La passione ti spinge, l’imposizione no».
Tante vittorie, ma ricorda una trasferta da dimenticare?
«In Polonia, nell’ultima gara prima di Seoul. Ognuno di noi perse almeno 4 chili. Mangiammo da schifo. Ma come si fa per un canottiere? I miei compagni di allora la ricordano ancora adesso».
Carmine, oggi stia tranquillo. Grande festa per i cinquant’anni a Castellammare. Dove? Come? Guai a cercare di carpire qualcosa, tutto è rigorosamente top secret.
Fonte: C.d.S.
La Redazione
P.S.
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