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Jorginho: ”Napoli, il secondo posto non è un miraggio. Voglio ripagare l’affetto della gente vincendo qualcosa”

Le felicità è un sogno da accarezzare dolcemente, lasciandosi cullare dalla propria fanciullezza, da quel senso di incoscienza e di inconsapevolezza ch’è naturale: ma quando Imbituba comiciò a divenire una traccia sfuocata, e le case scomparvero all’orizzonte e i profumi si smarrirono nel nulla, Jorge Luiz Frello Filho ebbe un moto di ribellione verso se stesso e decise di lasciarsi alle spalle gli aquiloni e il pallone. « Mi ritrovai a duecento chilometri da casa e avevo poco più di tredici anni, in una scuola calcio gestita da due procuratori italiani e due brasiliani. Eravamo una cinquantina di noi, alloggiavamo tutti assieme. Volevo i miei genitori e se non fossero stati proprio loro ad opporsi, perché sapevano che servono anche i sacrifici, non ce l’avrei mai fatta. E’ stata dura, ma ho resistito: ascoltai i loro consigli; m’è andata bene. Ma la mia vita è stata altra angoscia».
IL DOLORE DEI SOLDI – E quando sarà Jorginho, e l’universo scivolerà intorno a quell’idea di calcio, magari parrà a qualcuno che è stato un gioco da ragazzi, un esercizio gioioso dell’esistenza, che però ha miscelato l’estasi al tormento e che s’è sviluppata faticosamente nell’angosciante fasciatoio della nostalgia: « A quindici anni, invece, sono arrivato a Verona, un Paese nuovo, lingua sconosciuta e la famiglia a ore e ore da me. Mi ritrovai in un convitto, mi davano anche la paghetta: venti euro alla settimana e diciotto mesi difficili, i più duri di sempre. Ma andai il Verona e quella città è diventata la mia seconda casa. Ho conosciuto tre persone che avrei piacere venissero citate: Nicola Fittà, che ora è il mio mental coach; Corrado Alban e il portiere del Verona, Rafael. Non potrò mai dimenticare ciò che hanno fatto per me, standomi al fianco, portandomi tra i loro figli, dandomi il sostegno necessario. Lei sa, venti euro sono il nulla, ci compri niente, non quello che vorresti, pur non avendo grosse pretese. E poi l’affetto, la possibilità di non avvertire la solitudine. Ero ancora un bambino, io. Ma cominciai a ragionare da grande».
UNA MAMMA PER PAPA’ – Cominciò mica per caso, questa favola d’un principino azzurro che educatamente s’è intrufolato nelle grazie di una città esigente e però accattivante, la Grande Bellezza che si contrappone ad indiscutibili brutture, e che però ti conquista soprattutto se resti sospeso sul terrazzo di casa tua: « Quando sono a Posillipo, dove sono andato ad abitare con la mia compagna, mi capita di fermarmi a rivedere i miei ventidue anni. Non è stato semplice, ma c’è qualcuno a cui è andata peggio. Io ero nato per fare il calciatore, perché in casa mia c’è sempre stato un pallone, non solo il nonno ma anche lo zio, non solo papà – Jorge, come me – ma soprattutto mamma, Maria Teresa, il vero fenomeno. Perché il babbo, che fa il tassista, non ha mai avuto piedi buoni: anzi, era scarso. E la mamma invece mi costringeva ad andare con lei in spiaggia a palleggiare: sulla sabbia è più complicato, ma lei era intransingente, osservava e correggeva e se non capivo s’arrabbiava. Lei aveva tecnica. Ha capito perché devo farcela?».
NAPULE E’ – L’Italia è la dimensione travolgente che s’abbatte su quel talento piegato su stesso, spezzato in due dal desiderio di disegnarsi il mondo tra i piedi e la vena di malinconia che va ingrossandosi: « Devo tanto al Verona e a Verona, che mi hanno aiutato a crescere. E’ stato un corso di formazione accelerato, mi hanno lanciato nella mischia, hanno creduto in Jorginho almeno quanto me. Poi è arrivato il Napoli e ho scoperto negli occhi della gente la soddisfazione per il mio arrivo. E mi chiedevo: ma cosa ho fatto per meritarlo? Sono in debito per le manifestazioni di simpatia, ma sono convinto che ripagherò: io sono venuto qua per vincere e so che rischio di fare affermazioni banali. Ma c’è la storia del calcio, qui; calciatori di profilo elevatissimo e un allenatore che da solo è una garanzia: con lui si può puntare a qualsiasi obiettivo. E c’è una società che ha un progetto ma non per modo di dire: è nei fatti. E un pubblico che fa impazzire».
IO NON HO PAURA – Cenni di autobiografia, per raccontarsi senza veli e senza alcuna ipocrisia, per sistemarsi al centro del palcoscenico, lasciandosi scaldare dal tepore delle luci che si sono accese e che non accecano, perché il calcio è allegria, è anche un pieno d’ottimismo, è una finestra sul Mondo da attraversare avendo padronanza di sé: « Ho provato con la scuola e m’è servita, al Linguistico, per imparare l’Italiano, poi mi sono dovuto arrendere, perché era impossibile – almeno per il sottoscritto – conciliare lo studio d’Economia Aziendale. Però ho acquisito altre nozioni, diciamo caratteriali: sono rigido con me stesso, ma ho forza dentro, io penso soprattutto nella testa. Porto con me gli insegnamenti che i miei genitori hanno offerto a me e a mia sorella. Faccio cose semplici, in genere, però spero di riuscire a farle in maniera efficace. Credo di essere intelligente ed equilibrato e lo dico senza presunzione: sono stato costretto a crescere in fretta, prima del tempo. Ho la serenità che mi aiuta ad essere sempre concentrato al cento per cento: ciò non vuol dire che farai tutto bene, ma che proverai a farlo e potresti riuscirci. Credo nel lavoro, pure quello mentale… E non temo le responsabilità, sono qui per prendermele, mi toccano. L’ho capito sin dal momento dell’impatto, da quando ho colto il calore di questa città nella quale sono stato accolto con ottimismo».
CIAK, REGIA – Ma mentre intorno è ancora il vuoto dell’incertezza, ci si può candidamente lasciare andare alla narrazione lieve di quel ch’è stato, di quel che sarà questa vita da regista d’un uomo che vuole essere tutto d’un pezzo orgogliosamente se stesso. « Quando dico che mi piacerebbe essere un po’ Pirlo e un po’ Xavi non intendo paragonarmi a loro, ma spiego ciò che avverto nelle mie corde e che vorrei poter liberare. Però devo sudare, applicarmi, osservare e migliorare. Chiariamo, allora: i punti di riferimento sono loro due, Xavi che ha velocità di pensiero e di esecuzione e Pirlo che ha capacità balistiche non comuni, perché nessuno sa pescare il compagno al di là dell’avversario. Io intanto non mi pongo limiti, poi vediamo cosa sarò in grado di fare, dove saprò approdare. A Verona, ad esempio, ad un certo punto cominciai a tirare rigori: ne segnai cinque su cinque. Pure quello fu un test. Ho voglia di migliorarmi sempre e non pensavo che in un paio di stagioni appena mi potesse capitare tutto ciò: ci speravo, è chiaro, ma sono stupito. Però ho anche le motivazioni giuste per continuare».
SINCERITA’ – Italia, Brasile: c’è un Jorginho che danza tra le sue due «esistenze» e in quell’enfant prodige che piace a Prandelli (e che da lui è atteso, prima o poi: « ma non chiedetemi altro, perché io di regolamenti non capisco»), in quel genietto che ha entusiasmato Allegri ed è stato inseguito dal Milan, che infine è stato trascinato di peso da Bigon a «lezione» da Benitez, stavolta sta per accomodarsi in poltrona per godersi un Mondiale da «spettatore non protagonista», perché ora è diverso, perché ora è un candidato per il 2015 alla maglia azzurra, perché ora ha elementi per giudicare e laterale con una terrazza sul futuro. « Il Brasile penso sia favorito, lievemente avvantaggiato rispetto alla Spagna che è forte, all’Olanda che mi piace; alla Germania che non fallisce mai e all’Italia che è pericolosa». Il sorrisino da scugnizzo nasconde il messaggino subliminale da inviare a «el pipita», l’amico d’uno spogliatoio nel quale poi divertirsi magari un po’, perché la «rivalità» è in quello scherzo a mezzo stampa…« No, l’Argentina non ce la metto…Vediamo che dice Higuain… Vediamo, dai».
VERDE, BIANCO E (GIALLO)ROSSO – Ops, c’è dell’altro: c’è una verità immediata da far emergere, prim’ancora di scoprire ciò che avrà riservato il destino; ci sono i turbamenti dei giovedì e però anche l’energia da lanciare in campionato e in quella finale di coppa Italia da vivere tutta d’un fiato, il primo traguardo da inseguire. « Vado per ordine: io capisco Benitez e se non m’avesse lasciato fuori dalla lista dall’Europa League si sarebbe trovato senza difensori. E’ chiaro che avrei preferito giocare, ma quando il mister m’ha parlato non c’è stato bisogno di spiegare. Avrò modo di farlo, se lo meriterò, al sabato, alla domenica. Intanto, contro lo Swansea ho sofferto come un matto; e comunque se dovessimo vincere la coppa, la sentirei anche mia, perché io condivido ogni cosa con i miei compagni. E se dovesse vincere il Napoli in quel successo ci sarebbe anche Jorginho. Però adesso abbiamo la Roma, non so se è un vantaggio affrontarla senza De Rossi: so che possiamo ancora afferrare il secondo posto. Per quest’anno sarebbe un bel successo. Poi, più in là, nella stagione prossima, verificheremo se sarà possibile avvicinare la Juventus. Sta meritando, sta andando forte, ha qualità. Ma il Napoli ha fame e un giorno prima o poi…». Quando sarà Jorginho, ci sembrerà tutto chiaro il perché…

Fonte: Corriere dello Sport

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