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LA STORIA- Parla Cervasio, calciatore mancato per amore

Un ragazzo come tanti ed il suo sogno di arrivare in alto...

Si dice che il calcio sia il gioco più bello al Mondo, di sicuro, numeri alla mano, è il più seguito. Dietro ad un pallone, però, si celano molte volte Storie di vita, Storie di gente comune, Storie dove “l’happy ending” è un dato soggettivo. La Storia di cui la Redazione di Iamnaples.it vi parlerà quest’oggi riguarda Gaetano Cervasio, 27 anni da Brusciano, alle porte di Napoli. Gaetano, ad oggi contabile in Sant’Angelo in Lizzola, nelle Marche, ha sfiorato il calcio che conta, preferendo non allontanarsi di casa quando era poco più che un bambino, per rimanere con Manuela, la donna che tra pochi mesi sposerà. La chiacchierata con lui, un bravo ragazzo come tanti, ci fa rivivere tutte le emozioni di chi sogna e, a volte, per strada è costretto, o semplicemente vuole, cambiare destinazione.

-Per i più sei uno sconosciuto, ma ad inizio anni ‘2000 nell’hinterland napoletano eri una sorta di leggenda metropolitana, un piccolo fenomeno. Come ti sei avvicinato al calcio?

“Ho iniziato a giocare a calcio sul balcone, con mio padre Giovanni, che mi ha trasmesso questa grande passione, poi a sei anni ho indossato la mia prima “casacca”. Giocavo a Castello di Cisterna, nel San Nicola, vivaio di grandi calciatori tra i quali Vincenzo Montella, Antonio Di Natale e Nicola Caccia.”

-Quando ti sei accorto di valere, di avere qualcosa in più agli altri bambini?

“Da piccolo ero molto gracile fisicamente, ma molto dotato con ambo i piedi e ricordo che un lunedì mattina, avrò potuto avere al massimo dieci anni, lessi su “Le Cronache di Napoli” che si parlava di me, che mi accostavano all’Empoli, dato che la squadra toscana pescava spesso al San Nicola, vedi i calciatori sopra citati. Personalmente ero all’oscuro di tutto, ma come può capitare ad un bambino di dieci anni, leggere quelle cose fece scattare in me un atteggiamento di superiorità e leziosità, ero immaturo e iniziai a perdere quel brio iniziale.”

-Come si è conclusa la tua esperienza nel vivaio del San Nicola?

“Continuai a divertirmi con la società di Cisterna, ma ebbi problemi con la Dirigenza, in quanto avevo quasi l’impressione che volessero mettermi in ombra per favorire altri ragazzini “portati” dai piani alti della società. Ho comunque bei ricordi di quel periodo, amavo il calcio e non lasciavo mai il pallone, con mio padre continuavo ad allenarmi anche a casa e per lui correvo in campo di Domenica. All’età di tredici anni decisi di passare al Pomigliano, bella realtà di D. Dopo pochi mesi a Pomigliano, fui chiamato dal Granarolo in Emilia Romagna, società satellite del F.C. Bologna.”

– Che vuol dire per un ragazzino appena adolescente lasciare tutto e dedicarsi in toto al calcio, lontano da famiglia ed amici?

“I primi mesi a Bologna furono molto belli per me, ma la mia esperienza in Emilia Romagna non durò molto, m’infortunai in un’amichevole con il Verona ed allora tornai a casa. Quando mi ripresi tornai a giocare con il Pomigliano, avevo quindici anni e tanta voglia di sfondare: avevo perso un treno molto importante ma avevo fiducia dei miei mezzi e notavo che, lavorando seriamente, potevo dire la mia.”

-Che tipo di calciatore eri?

“Come spesso capita da piccolissimi, i più bravini giocavano in mezzo al campo, ed io ho mosso i miei primi passi in quel ruolo lì, poi, col tempo, sono retrocesso e giocavo come difensore centrale. Le mie caratteristiche migliori erano il tempismo e una buona visione di gioco, inoltre ho sempre ricevuto complimenti per le mie doti tecniche.”

– Come fu il ritorno a Pomigliano?

“Come accennato precedentemente nonostante l’infortunio non persi d’entusiasmo e tornai ad allenarmi con serietà e dedizione e arrivò la chiamata del Granarolo, il direttore tecnico, tale Foschini, avrebbe voluto riacquistare il mio cartellino, ma fu impossibile trovare un’accordo con la mia società e non se ne fece più nulla. Poi, in seguito ad un’amichevole al Partenio contro la Prima Squadra dell’Avellino, allora in B, dove marcai con successo Danilevicious, fui chiamato anche dalla società irpina,ma la risposta del Pomigliano fu la stessa: avevamo da giocare i play off Nazionali di categoria e cedermi fu impossibile. E’ uno dei miei grandi rimpianti.”

-Tutti questi “incidenti di percorso” non avrebbero spezzato le gambe ed i sogni a qualsiasi ragazzino di 15/16 anni?

“Non è stato il mio caso, qualche mese dopo le delusioni ricevute, arrivò la chiamata che attendevo e approdai a Tor di Quinto, società satellitte della Roma dove ho trascorso un anno bellissimo e pieno di soddisfazione. Nel Lazio era una delle società più rinomate a livello giovanile, capace di sfornare talenti come Marco Materazzi e Freddi. Lì ho il mio ricordo più bello: feci il raccattapalle in diverse occasioni, tra cui Roma- Valencia in Champions League. Finì 0-1 con rete di Carew. Purtroppo però la società non navigava in buone acque e dovetti rifare le valigie. Tornai a Pomigliano per l’ennesima volta in pochi anni. Questa volta, però, nonostante la mia giovane età, fui aggregato alla prima squadra e cominciai a racimolare convocazioni in D.”

-Niente male per un ragazzino. Dovevi avere una gran passione per quello che facevi.

“Amavo il calcio e insieme a mio padre sognavo di poter arrivare lontano, così un giorno fui chiamato dal Perugia di Cosmi per un provino con i miei pari età. Arrivato lì trovai difficoltà a mettermi in mostra, specie nelle partitelle, dato che come spesso succede, quei ragazzini, ormai parte di una squadra, non mi passavano spesso il pallone, per paura di perdere il posto. Nonostante questo riuscì a fare buone cose e dopo l’allenamento mi chiesero di mettermi a calciare con il secondo portiere della prima squadra, impressionai per l’abilità con entrambi i piedi.”

-Perché non hai mai giocato a Perugia?

“Dopo tante occasioni perse un pò per sfortuna, un pò perché forse era Destino, decisi che stavolta il mio Destino l’avrei scritto da solo: la chiamata da Perugia arrivò, erano disposti a svincolare uno dei loro, pur di farmi spazio in squadra; finalmente avevano creduto appieno nel mio talento. Ricordo che era un sabato pomeriggio ed io ero in motorino con Manuela, la mia ragazza, avevo diciassette anni. Mi squillò il cellulare: mio padre aveva già pronta la valigia per Perugia. Ma qualcosa mi bloccò..”

-Ti riferisci alla tua ragazza?

“No, ma all’amore che provavo e per fortuna tutt’ora provo per lei. L’amore più grande che abbia mai provato, insieme a quello per la mia famiglia ed il calcio. Quel pomeriggio, quando riaccompagnai Manuela a casa, mi augurò il meglio e propose di interrompere la nostra relazione, ma io, allora come adesso, sapevo che lei è la donna della mia vita e preferì restare al suo fianco piuttosto che andare a cercare fortuna a Perugia. Vidi mio padre piangere per la prima volta, stavolta ero stato io a dire di no al “passaggio del treno”.

-La tua carriera, praticamente, finì allora, prima ancora di incominciare?

“Praticamente sì. A Pomigliano esordì in D e l’anno successivo passai alla Turris, per giocare con la Beretti e talvolta essere accostato alla prima squadra. A vent’anni ero in Eccellenza con il Real Aversa, e da allora, sei anni fa, decisi che il calcio per me sarebbe stato nient’altro che un divertimento. Ora penso al mio futuro: tra poco, a settembre, mi sposerò con la mia Manuela. Ricordo che mia nonna, poco prima di morire, mi chiese di prometterle che avrei fatto il possibile per diventare un calciatore, la parola non l’ho mantenuta, ma so che  ora è contenta ugualmente perchè per lei, farmi promettere una cosa del genere, voleva dire farmi lottare con tutte le mie forze per ciò che amavo, ciò che mi avrebbe reso felice, ed anche se non è quello che pensavo, l’ho trovato ugualmente.”

-Chi è oggi Gaetano Cervasio?

“Un ragazzo come tanti, che ama divertirsi, stare con gli amici e sognare con la persona che ama. Lavoro come contabile in una grande azienda e convivo in provincia di Pesaro con Manuela da due anni. Di tanto in tanto mi diverto ancora a giocare a calcio e spesso mi capita di ricevere complimenti e richieste di spiegazioni sui perchè del mio abbandono, ma non ho rimpianti. Anzi tutte le lusinghe sono per me motivo d’orgoglio. La più bella? Quella di Fabrizio Tafani, attualmente preparatore atletico del Brescia e per molti addetti ai lavori un fuoriclasse del settore: mi disse che in me rivedeva Franco Baresi.”

-Qualora dovessi avere un figlio, coltiveresti in lui la passione per il calcio come ha fatto tuo padre, o preferiresti che facesse tutte le scelte del caso in completa autonomia?

“Mi comporterei come mio padre, ma se non dovesse piacergli giocare a calcio non ne farei un dramma. Alla fine, la passione di mio padre mi ha solo giovato e, anche se non ho coronato il nostro sogno, credo che lui sia contento lo stesso per me. Ultimamente ho sentito Giampiero Guarracino, direttore della Tor di Quinto; mi ha detto che se avessi avuto un figlio bravo come me con il pallone, l’avrei dovuto subito portare da lui. Spero possa succedere, ma se non sarà così andrà bene lo stesso.”

-Hai dei rimpianti?

“Rimpianti no, ma a volte penso alle varie occasioni perse: non avevo un procuratore e spesso è quello che fa la differenza. Ho visto tanti compagni riuscire a diventare professionisti, ho giocato con Fabio Borriello (fratello di Marco ndr), Cerci, Paonessa. Ma rifarei tutto quello che ho fatto, tranne assistere alle lacrime di mio padre. Ho scelto con il cuore.”

La discussione con Cervasio, o meglio Gaetano, è un inno alla normalità, un monito a tutti quei ragazzi che sognano e, per un motivo o per l’altro, forse, non ce la faranno: la Vita è un continuo e altalenante susseguirsi di emozioni e spesso si può cambiare strada per correre dietro ai propri sogni. Il campo, sin da piccoli, insegna anche questo.

A cura di Mirko Panico

 

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