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Nel calcio italiano non c’è più posto per la gratitudine, impariamo dalla Premier League: il “surreal-day” di Frank Lampard

Da Paolo Maldini ad Edison Cavani, nel nostro paese la cultura sportiva sprofonda in maniera preoccupante nel tempo. Impariamo dagli inglesi

Quanto bisognerebbe imparare dagli inglesi? La riconoscenza è una dote che noi calciofili italiani non siamo in grado di mostrare, nemmeno quando ci si trova davanti ad un giocatore che ha regalato sogni ed emozioni alla tua maglia del cuore. Dai fischi a Paolo Maldini (647 presenze in maglia rossonera) da parte dei tifosi del Milan durante il giorno del suo addio arrivando fino ai  più recenti dei supporters napoletani riservati ad Edi Cavani, uomo dalle 104 reti complessive in maglia azzurra (secondo in termini di popolarità solo ad un certo Diego Armando Maradona). E’ triste tutto ciò, soprattutto quando si tratta di giocatori che hanno dato il massimo con la propria maglia d’appartenenza. La cultura italiana, contraddistinta da un’assidua e distorta mancanza di gratificazione verso i propri idoli, stona in maniera colossale con quella inglese. Domenica scorsa in Premier League si giocava uno dei match chiave per il titolo: Manchester City-Chelsea. Una partita dal sapore agrodolce per l’ex idolo dei Blues Frank Lampard, dal 2001 custode delle chiavi della mediana del club di Abramovich, costretto a fare tappa a Manchester –sponda City- prima di dover effettuare il definitivo volo verso gli Stati Uniti per concludere la sua gloriosa carriera con il New York City. A poco meno di un quarto d’ora dalla termine del match il centrocampista inglese viene gettato nella mischia dal tecnico Manuel Pellegrini per cercare di ristabilire il risultato di parità dopo l’inferiorità numerica rimediata dai Citizens per la doppia ammonizione rifilata a Zabaleta ed il successivo svantaggio subito da Schürrle. Ebbene, come solo la magia di questo sport sa regalare, dopo sette minuti dal suo ingresso in campo Lampard insacca il gol del pareggio lasciando almeno per un attimo alle spalle i gloriosi successi conseguiti in Champions League, Europa League, Premier League, FA Cup, Community Shield e Coppa di Lega con la maglia dei Blues. Il mediano non esulta. Traspare rammarico, sconforto e magari anche un pizzico di delusione nei volti dei suoi ex supporters assiepati nel settore ospiti dell’”Etihad Stadium”. Stati d’animo frustanti che non impediscono loro di riservare un lungo applauso al loro ex numero 8 nel post-gara. Si, proprio a lui che una manciata di minuti prima aveva negato un’importante vittoria in chiave titolo per la propria squadra del cuore. Una scena inimmaginabile nei confini del nostro belpaese. Tredici anni con la maglia del Chelsea non si possono dimenticare così presto, non per i supporters inglesi. Dinanzi a scene come queste c’è da riflettere: è essenziale che il processo di “rieducazione” del calcio italiano sia graduale e duraturo nel tempo, nonostante sia sempre viva la paura di incombere in quei tradizionali ed usuali discorsi troppo spesso decantati ma quasi mai concretizzati. Non possono esser esenti da profonde riflessioni, infine, i giocatori ma anche gli allenatori e i dirigenti dei nostri club che, in maniera frequente, utilizzano a volte in modo inappropriato i mezzi di comunicazione per attribuire colpe o difendersi da accuse, anziché dare adito all’obiettività dei fatti avvalendosi magari della professionalità che i loro ruoli dovrebbero presagire. “È stato veramente difficile per me. Sarei stato non professionale se non fossi andato su quella palla e non avessi fatto il mio lavoro realizzando il gol del pareggio”, impariamo tutti da Frank Lampard.

 

A cura di Gilberto D’Alessio

 

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