Il rumore sordo dell’enorme portone di legno scatena un tonfo nell’anima e ciò che resta del mondo, ormai chiuso a tripla mandata oltre la barriera del suono, è l’eco lontana della vita ormai denutrita e persino della memoria. Il Cristo che t’accoglie, oltre il metaldetector, ha lo sguardo consumato dalla propria sofferenza eppure sembra osservi le espressioni vaghe che sfilano nel corridoio, un’inferriata dietro l’altra, sino a lasciarsi alle spalle se stessi. Poggioreale è un anfratto in cui l’esistenza va a rinchiudersi, l’angolo della malinconia, dello svilimento, che in novantotto anni ne ha raccolte di storie e che ora, nel Terzo Millennio, ne accoglie ancora tante, troppe, duemilaseicento laddove ce ne dovrebbero essere appena millequattrocento, un ammasso di corpi che si sono buttati via e che però sperano di recuperarsi. Poggioreale, periferia di un «io» rinchiuso tra mura di cinta enormi, la Napoli marginale che sfila nel buio e là resta, in attesa di un’ora d’aria o d’un giorno speciale, d’emozioni riacquisite d’incanto, un surrogato – certo – però godibile, con una boccata di realtà ormai dimenticata che irradia energia e lascia sprigionare luce e speranza a quei trenta detenuti radunati nella cappella per lasciargli intravedere il vissuto ormai sepolto da un po’.
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