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Roma, Perotti: “Napoli la più forte nel gioco, sono come il Barça. Con Spalletti sarei andato via…”

"Di Francesco? Bello avere un allenatore che ti sostiene"

Trigoria. Mezzogiorno. Ma tutto è meno che di fuoco. L’appuntamento è con Diego Perotti. Percorriamo il lungo corridoio verso la sala dei trofei, un corridoio che attraverso le fotografie e le maglie appese alle pareti, è un piccolo grande viaggio nella storia della Roma. Emoziona. Ed è reso ancora più suggestivo da un incrocio tanto imprevisto quanto gradito. Francesco Totti. Baci, abbracci, sorrisi, «guarda come sto (e si tira su la maglietta ndr), dieci minuti potrei ancora giocarli». Pure bene, aggiungiamo noi. Saluti. Ci sistemiamo nel salone dei trofei. Perotti arriva con una tuta da febbre del sabato sera che mette buon umore. Convenevoli. Si parte con una chiacchierata su tutto e tutti. Al centro c’è la sua Roma.

Come sei arrivato alla Roma?

«C’erano altre squadre che mi volevano, anche il Milan. Io dal primo momento ho pensato alla Roma. Una città così storica, così bella, con una squadra così popolare… Anche per la mia famiglia era la soluzione migliore: qui c’è il volo diretto per Buenos Aires. Trovavo una squadra che già giocava per lo scudetto. Non avevo dubbi. C’era tutto. Per me la Roma era la Roma. E poi a Genova avevo Burdisso come compagno. Mi parlava della città, della squadra, dei tifosi che erano caldissimi, cosa importante per noi argentini. Stava sempre a parlare della Roma e dei tifosi».

Quanto contano per te e il tuo calcio?

«Tanto. Tantissimo. Al Genoa anche se è una squadra più piccola c’è un tifo passionale, lo stesso al Siviglia, poi io ho giocato anche nel Boca. Per me è importante giocare in un clima così».

Tu a Genova sei rinato.

«Sì, perché ho trovato un dottore che ha capito fin dal primo momento quello di cui avevo bisogno e un allenatore bravissimo come Gasperini affiancato da preparatori atletici in gamba. Ho sentito che il mio corpo ha avuto un – come si dice – reset. Ho giocato la mia prima partita di Coppa Italia e ho sentito un po’ di fastidio al polpaccio, credevo di essermi stirato, ma gli esami non evidenziarono lesioni. Avevo paura che mi sarei dovuto fermare subito e un’altra volta, che gli infortuni mi avrebbero “maledetto” come era quasi sempre successo. Il dottore mi disse di stare tranquillo, che avevamo tempo, di allenarmi per tutta la settimana e che avremmo valutato in seguito. Sono riuscito a giocare anche con il dolore per la fiducia che mi ha dato. Da quel momento è cambiato tutto».

Cos’altro ti ha cambiato come calciatore?

«Il gol al Genoa del 28 maggio scorso. Mi ha cambiato la vita»

La tua vita da calciatore l’hai messa in discussione più di una volta. Perché?

«Gli infortuni. A Siviglia, al Boca. Ho fatto un intervento per l’ernia del disco, ma prima di quello un intervento per gli stiramenti al flessore e nonostante l’operazione ho continuato a stirarmi. Poi ho avuto anche problemi al polpaccio e al quadricipite: quando sono tornato al Boca sono rimasto quattro mesi e ho giocato solo due partite. Lì sono stato male. Non riuscivo a giocare».

Neppure i medici riuscirono a capire i motivi del tuo problema?

«La cosa strana è che mi facevano qualsiasi tipo di esame, ma nessuno individuava un motivo per cui avrei dovuto lasciare il calcio. Io mi auguravo un responso, l’avrei accettato. Mi sarei fatto una ragione. Mi dicevano che ero sano, eppure non potevo giocare. Io non uscivo la sera, non fumavo, non bevevo, guardavo gli altri compagni che facevano una vita meno regolare della mia e mi chiedevo come facessero a giocare. Neppure ora che gioco so perché mi succedeva e perché adesso non mi accade. Penso che ci sia stato uno scatto mentale, ma soprattutto è importante il lavoro di forza e di prevenzione che faccio. Adesso devo arrivare sempre un’ora prima per lavorare in palestra».

Era anche un problema di testa, forse?

«Forse, ma alla fine gli infortuni c’erano. Non erano tutti come il problema al polpaccio che alla fine non c’era niente. Mi sono stirato quindici volte al flessore, si vedeva dalla risonanza. Quando inizi a farti male, ogni fastidio ti sembra una ricaduta, una lesione. Come la storia del polpaccio, dove magari non c’era niente».

Quanto è vero che avevi pensato di smettere?

«È vero. Quando ero più piccolo era un problema di autostima, pensavo di non avere le qualità. Ci sono tanti giocatori che magari a dodici o tredici anni sembrano fortissimi, poi a diciotto si perdono e non arrivano a giocare nemmeno in B. Al Boca c’erano dei ragazzi fortissimi, ma non sono emersi. Così come accade l’inverso. Nel mio caso l’allenatore non mi faceva giocare».

C’è bisogno di sentire la fiducia intorno?

«Da ragazzo se ti manca la fiducia puoi perdere la speranza. Io ero arrivato a pensare di essere bravo a giocare con i miei amici e basta. Al Boca in quel momento guardavano molto il fisico, io ero piccolo, non cercavano molto la tecnica. L’allenatore era Roberto Mouzo, ex giocatore, un’icona del club (dal ’71 all’84 al Boca Juniors, 396 presenze ndr). Quando sono tornato al Boca e ho avuto un infortunio al polpaccio ero sfiduciato. Sentivo che era finita. Avevo affittato un appartamento vicino allo stadio per andarci solo a dormire perché poi tutto il giorno stavo a casa mia, che era lontana. Sono tornato lì da solo, ho chiamato mia madre, ho pianto e le ho detto che non riuscivo a continuare. Lei mi disse per la prima volta che era d’accordo. Questo mi aiutò, mi colse di sorpresa, perché lei mi sosteneva sempre e mi spronava a continuare. Ma in quel caso mi vide troppo giù e mi disse: “Se è quello che vuoi, hai il mio supporto”.

Poi cosa è successo?

«Chiamai il mio procuratore, perché mi mancava ancora un anno a Siviglia. Lui mi disse di temporeggiare fino alla fine della stagione. Poi è arrivato il Genoa, che è stato un regalo. Non giocavo da due anni più di quattro o cinque partite di fila, in pratica. Arrivò una squadra di serie A, fu un dono di Dio. Sì, a Genova sono rinato. Poi Roma mi ha cambiato la vita».

Com’è stato il tuo primo incontro con Monchi?

«Il primo che ho conosciuto è stato Victor Orta. Lavorava con Monchi, perché io sono arrivato nella seconda squadra, il Siviglia Atletico. Un paio di giorni dopo l’ho conosciuto, ma non così a fondo perché lui si occupava della prima squadra. La curiosità è che con l’allenatore che avevo nella Primavera, Jimenez, stavo in panchina. Dopo quattro mesi il tecnico della prima squadra andò via e gli subentrò il mio allenatore che mi portava ad allenarmi con loro, anche se non potevo giocare perché non avevo il passaporto, ero extracomunitario. Quando ho preso il passaporto mi ha portato definitivamente in prima squadra. Magari non mi vedeva ancora pronto. Io avevo giocato con la seconda squadra ma era un campionato di serie B di livello, ho giocato contro giocatori forti come Ayala e altri, era quasi come giocare in serie A. Lì è iniziato il rapporto con Monchi».

Cos’ha di particolare Monchi?

«Ha qualcosa che altri non hanno. Non è normale che abbia preso tanti giocatori sconosciuti e li abbia rivenduti al triplo o anche più. Dani Alves, Rakitic, Bacca, Fazio…».

Anche Perotti. Però Perotti non si vende. Si ferma a Roma, per quanti anni?

«Dipende da Monchi…». (ride).

Tuo figlio nascerà e crescerà qui a Roma…

«Certo! Volevamo una bambina, vediamo come sarà questo secondo maschio, se è tranquillo ci pensiamo, c’è tempo. Io per adesso ho ancora due anni, il mio procuratore sta parlando con Monchi. Voglio restare, non ci saranno problemi perché quando arrivi a una certa età diventa tutto più facile. Quando ero ragazzo mi arrabbiavo di più».

Tu eri tifoso da bambino?

«Sì, del Boca. Non piangevo quando perdeva, ma mi dispiaceva. Non ero un tifoso proprio “pazzo”, diciamo. Poi quando sono stato due anni nel settore giovanile e non ho giocato al Boca ho avuto non proprio un rancore, ma ho perso entusiasmo. Poi diventi un professionista, cambia l’ottica».

Sei stato da tifoso alla Bombonera?

«Sì, tante volte. Ci ho giocato due partite e quattro o cinque volte sono andato in panchina senza entrare. Ti diverti anche se non giochi, senti le canzoni, è veramente diverso. La partita che ricordo maggiormente è una semifinale di Libertadores con Riquelme che fece un numero pazzesco. Era il leader. Ho avuto la fortuna di incrociarlo nella mia carriera. Quando sono tornato al Boca ci ho giocato una sola partita, purtroppo».

Tu hai giocato con Riquelme, sei stato convocato da Maradona e hai sostituito Messi in nazionale…

«E ho giocato con Totti e ora con De Rossi. Il calcio mi ha dato davvero tanto».

De Rossi vorrebbe giocare alla Bombonera. Dopo l’espulsione col Genoa cosa ti senti di dire su di lui?

«Io lo vivo tutti i giorni nello spogliatoio e l’ho visto dopo quell’episodio. Lui non è uno che fa certe cose per farsi vedere o per dimostrare che è cattivo. Lui è proprio così, vive la partita in modo particolare. Se non c’era la Var magari non se ne sarebbe parlato. Dobbiamo stare più attenti. Ma di solito anch’io subisco di tutto… Noi stiamo con Daniele, sappiamo quanto era dispiaciuto. I due punti ci servivano, ma lui è il giocatore che ora rappresenta questa squadra, è il mio capitano, è il capitano di tutti, anche della città. Tu ti rendi conto quando un giocatore è un coglione che ti fa perdere una partita e lo vuoi “ammazzare”… Lui non è così, non è servito che ci dicesse niente».

La Roma ti porterà al Mondiale?

«Se non fossi mai andato in nazionale direi di no. Ma dopo la convocazione, anche se ho ancora poche possibilità di farmi vedere fino al Mondiale, ci penso. Gioco la Champions e sono in una squadra che punta allo scudetto e sto avendo continuità, a differenza del finale della stagione scorsa…».

Colpa di Spalletti? Saresti rimasto con lui allenatore?

«Non direi “colpa”, sono scelte. Non so se sarei rimasto, probabilmente no, non sarei rimasto. È vero che quel gol al Genoa mi ha cambiato molto. Il calcio a volte è ingrato, un episodio ti toglie tanto e un episodio ti restituisce tanto».

A proposito, ti ha ringraziato Totti?
«No, no… Era una giornata particolare, era impossibile dirgli addio con un pareggio che ti fa giocare i preliminari di Champions, penso sia stato importante non tanto per entrare in Champions quanto per lui, non poteva finire diversamente, con tutto lo stadio pieno».

Col Genoa è stato il tuo primo gol su azione della stagione scorsa. Forse è un po’ un tuo limite quello di segnare poco.

«Ma penso che la Roma non mi abbia preso perché facevo venti gol all’anno, quanto per il mio modo di giocare, per gli assist, per il dribbling, perché so aprire il gioco. So che come attaccante devo segnare di più, però fino ad ora sono contento. Poi l’anno scorso ho fatto dieci gol, si può parlare se su azione o punizione o rigore. Però i rigori bisogna segnarli… Certo, vorrei anch’io provare a fare 15 gol».

Con Di Francesco già da Pinzolo stai lavorando in maniera specifica sul tiro: è una richiesta che ti fa spesso quella di accentrarti e tirare?

«Sì, lui è stato l’allenatore che me lo ha chiesto di più. Per me è importante, è bello avere un allenatore che ti supporta, che ti motiva a puntare l’uomo, che quando prendi palla sai di avere la sua fiducia. Con un allenatore che ama di più il possesso palla magari mi troverei un po’ in difficoltà, perché il mio forte è puntare l’uomo. Quel lavoro che mi ha fatto fare da Pinzolo penso si stia vedendo in campo».

Di Francesco è stata una bella scoperta per te e la squadra?

«Ogni allenatore ha il suo modo di fare, poi alla fine fa delle scelte. Spalletti a un certo punto non mi faceva giocare, ma la squadra andava bene. Quando ha messo la difesa a tre e cambiato il ruolo di Nainggolan, è stato vincente. Non è vero che non voglio giocare a destra, è solo che preferisco a sinistra. Sia io che El Shaarawy abbiamo dimostrato che rendiamo meglio a sinistra. Però capisco gli allenatori e le loro idee. Con l’Udinese abbiamo fatto un tempo per uno. Quindi, è chiaro, preferirei giocare a sinistra, ma non sono di quei giocatori così forti che possono permettersi di scegliere il ruolo. Poi pur di giocare, lo farei anche in porta».

Tu hai sempre giocato esterno offensivo o da ragazzo giocavi più a centrocampo?

«Io da bambino volevo essere Riquelme».

Un mito assoluto Riquelme, forse più di Maradona, al Boca Juniors.

«Sì, al Boca sì. Hanno fatto un sondaggio tra i tifosi, ha vinto Riquelme. Loro poi litigarono quando Maradona era in nazionale, non so perché. Riquelme ha fatto bene anche al Villarreal e pure lì è stato considerato il giocatore il migliore. Consigli particolari non me ne ha dati quando abbiamo diviso lo spogliatoio per quattro mesi, è un po’ come quando arrivi qui e vedi Totti, non è che vai subito da lui a chiedere. Ci entri in confidenza piano piano, è normale, come compagno di spogliatoio. All’inizio neanche lo guardavo. Mi è successo anche con Riquelme, penso succeda a qualunque giocatore, una sorta di rispetto, di timore reverenziale».

C’è una cosa in particolare che ti piace di Di Francesco? Credete in lui?

«Di Francesco mi piace perché pretende sempre di più. Vuole attaccare. Qualche volta devi avere equilibrio, è vero, ma a me da attaccante questa libertà dà molta fiducia. Di Francesco mi ha fatto crescere e mi ha fatto fare meglio dell’anno scorso. Noi crediamo in lui fin dal primo giorno, ma anche in noi stessi, nel gruppo. Il bello è che non ti rilassi con lui, adesso per esempio abbiamo vinto il derby, è importante, prendi fiducia. Lui vuole sempre di più, è molto importante per la nostra testa».

Com’è la Roma?

«Siamo completi. Non so quante squadre hanno due giocatori forti per ruolo. È vero che sono andati via dei giocatori importanti, ma ne sono arrivati altri, abbiamo avuto sfortuna con Schick e Karsdorp».

Credete in voi stessi anche dopo il pareggio di Genova?

«Certo, manca tanto. Dobbiamo recuperare una partita, mancano alcuni scontri diretti. Noi abbiamo incontrato già quasi tutti e con l’Inter non meritavamo di perdere».

A proposito dell’Inter, perché non ti hanno dato il rigore? Cosa avete detto all’arbitro?

«Di tutto… (ride). Ma c’è il Var. Quando succedono episodi di questo genere pensi che ce l’hanno con te. Bisogna essere più forti di questi pensieri negativi. Ci vuole prudenza perché non sai quando usano la tecnologia, ma sai che la usano, quindi è inutile buttarsi o fare una sciocchezza, è dannoso. Noi pensiamo a noi stessi e al nostro percorso tecnico, finora è stato positivo. Con l’Inter non meritavamo la sconfitta. L’unica partita che abbiamo sbagliato è quella con il Napoli, anzi solo il primo tempo di quella partita».

Bisogna cercare di vincere qualcosa quest’anno, anche una Coppa Italia.

«Certo».

Come ti sembra Schick?

«Speriamo che possa superare questi problemi che ha avuto. Ha facilità di fare gol, anche subentrando. Può giocare come numero nove o come esterno. Nei pochi minuti di Genova si è visto che è diverso, ha la qualità che a noi serve, è completo. È giovane, non dobbiamo chiedergli di fare subito una tripletta. Sarà molto importante, è fortissimo».

Kolarov ha portato qualcosa di diverso nello spogliatoio?

«Sì, è un giocatore di esperienza, già dal primo giorno è uno che parla. Non è uno che ride. Ma lo hanno detto anche di me, ma nello spogliatoio sono come gli altri. Sul campo c’è poco da ridere».

Sembri più sereno quest’anno.

«Può darsi che sia cambiato qualcosa, che sono un po’ più luminoso. Quel gol mi ha cambiato la vita, magari anche i tifosi hanno cambiato il pensiero che avevano su di me, i primi sei mesi avevo fatto bene e la gente era contenta, poi ho giocato meno e quando entri e non riesci a fare bene i tifosi lo vedono. Poi abbiamo avuto quella settimana negativa perdendo Uefa e Coppa Italia. Diciamo che quel gol al Genoa ha unito tutto, la fiducia in me stesso e il pensiero dei tifosi».

Due gol nei derby uniscono a prescindere.

«Non segno tanto, ma ne ho fatti di importanti. Più decisivo quello di quest’anno che quello del 4-1, lì la partita era chiusa».

La classifica delle avversarie?

«La più forte è il Napoli nel modo di giocare, soprattutto quando non riesci a prendere palla. A me è capitato contro il Barcellona di Guardiola, tu andavi lì e non potevi fare nulla, magari il Napoli non ti fa sei gol, ma nel possesso palla sono molto vicini. Ma se giocano sempre gli stessi sentiranno un po’ di stanchezza. Finora hanno fatto un calcio bello ed efficace. Ha giocato bene, ha vinto e per questo sono davanti. Noi quest’anno abbiamo la squadra per vincere lo Scudetto, anche se è vero che nella passata stagione non c’erano altre squadre come l’Inter».

Non hai nominato la Juve.

«Non mi sembra stia come le precedenti stagioni. L’ho battuta sia col Genoa che con la Roma, ma la vedo indebolita. Non tanto per i giocatori che restano fortissimi, come Higuain e Dybala, ma non vincono le partite con la stessa facilità che ha il Napoli che ti spacca la porta. Non è impossibile come negli altri anni. Certamente resta una delle più importanti del campionato».

Rigori. Chi è il tuo vice?

«Daniele, Edin, Stephan. Anche Bruno Peres e Kolarov».

C’entra qualcosa il fatto che sei appassionato di criminologia con il modo in cui tiri i rigori?

«Non lo so… (ride). Forse nel pensiero di andare piano, la freddezza, il modo di guardare il portiere, la suspence. Forse sì. Anche mia madre mi dice di non batterli così perché la faccio stare male, ma io sono abituato. Ho imparato da solo, non ho avuto modelli, ho iniziato a tirarli così a Siviglia con un portiere mio amico, Javi Varas. Poi ho un po’ perfezionato il modo di tirarli, così ho segnato alla Lazio col Genoa all’Olimpico. Io volevo finire la carriera senza sbagliare…».

Dove nasce la passione per la criminologia?

«Mi è sempre piaciuta fin da bambino la storia di Sherlock Holmes. Quando ero a Siviglia mi sono iscritto per un paio di mesi all’università di Criminologia, ma le lezioni erano dalle 17 alle 21, io già giocavo in Champions, non era conciliabile. Quando mi chiamò Maradona ero in aula, mi passarono il team manager dell’Argentina e mi disse di prendere il telefono perché mi voleva Diego. Ah, non mi chiamo Diego per lui, me lo chiedono tutti, ma non è così».

A proposito di numero 10, la prenderesti?

«No, no. La prenderei solo se Francesco viene e me la dà, mi è sempre piaciuto come numero ma l’8 mi piace, mi rappresenta a Roma e poi so quello che significa per i tifosi il 10. Sta bene dove ha finito».

E tu dove sei finito?

«Nel posto dove sarei voluto essere. Nel posto dove è cambiata la mia vita e dove nascerà il mio secondo figlio».

 

Fonte: Il Romanista

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