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Vincenzo M. Siniscalchi: “La bufala della responsabilità”

“Non è facile comprendere in pieno quello che accade nel calcio allorché entra «in campo» la giustizia sportiva, con le sue norme di carattere autonomo. Tuttavia incomprensioni – più che giustificate – della opinione pubblica coincidono con le contestazioni che vengono mosse nelle discussioni che si svolgono innanzi al giudice sportivo sul filo di un richiamo a norme generali condivisibili. È quello che accade nella vicenda che riguarda l’addebito di responsabilità nei confronti di due giocatori del Napoli per «omessa denuncia» di un presunto tentativo di «combine» nello scorso campionato. Lo stesso addebito dovrebbe avere in sede di giustizia sportiva una ricaduta con conseguente penalizzazione, della società del Calcio Napoli come esito della regola della cosiddetta «responsabilità oggettiva» della società conseguenza automatica della presunta condotta illecita dei calciatori.Così riferita in estrema sintesi la questione che si agita da sempre nel campo delle regole del diritto sportivo, già può intravedersi anche per il giurista, oltre che per il buon senso generale, il ricorso a terminologie difficilmente accettabili nel campo del diritto perché implicano un rapporto di responsabilità di tesserati e di società sportive di appartenenza costruito in modo automatico, oggettivo per l’appunto, secondo uno schema in cui non si colloca nessuna norma del diritto penale o civile, e che finisce per neutralizzare ogni più elementare diritto di difesa. Va dato atto che si tratta di un ordinamento, precisamente quello sportivo, che è del tutto autonomo e diverso dagli ordinamenti dello Stato, trattandosi, in sostanza, di codici di disciplina, espressioni di un tipo di autonomia che non può essere in alcun modo assimilabile alle leggi statali.Ma non è il tipo di autonomia dell’ordinamento sportivo che si vuole mettere in discussione. Quello che non convince, da sempre, è la esasperata forma di ipervalutazione della costruzione del tipo di responsabilità, sia del tesserato che delle società, introducendosi una forma di presunzione assoluta di responsabilità automatica. Per questo tipo di responsabilità, che viene definita oggettiva, non possono valere in alcun modo analisi delle condotte, ricostruzioni di prova che consentono, ad esempio, per il calciatore «avvicinato» negli spogliatoi dal compagno di dire che nemmeno lo ha preso sul serio in quella che non riusciva ad essere neanche una proposta vera e propria di «combine». Per questa responsabilità automatica oggettiva si può pensare all’assurdo di una penalizzazione della società di appartenenza che dovrebbe scontare non una vera e propria condotta omissiva del giocatore ma una sua comprensibile mancata presa in considerazione di quella che, ad esempio, poteva apparirgli una «bufala». Che la responsabilità oggettiva in sede disciplinare possa avere una sua giustificazione sul piano delle regole deontologiche può essere comprensibile, ma non si può accettare in alcun modo l’eccesso improprio di ricorso a questa forma di automatismo persecutorio. Ciò è ancora più evidente nel caso in cui la contestazione dell’illecito sportivo non nasce da una indagine autonoma ma ripete gli atti di indagine del processo penale ancorché si tratti di processo non concluso nemmeno nell’unica fase di verifica tipica del processo penale: quella del dibattimento.Non è ragionevole, a mio avviso, sostenere che risponda di omessa denuncia anche chi non si è nemmeno reso conto che doveva denunciare qualcosa. Men che mai è ragionevole sostenere che una società debba rispondere di condotte di giocatori che in alcun modo si sono definite né sono state definite dalla giustizia ordinaria. Debbo dire che la giustizia sportiva in molti casi ha contenuto nel principio di ragionevolezza gli eccessi di applicazione automatica della responsabilità oggettiva. Un ricordo: il primo processo derivato dalla inchiesta sul calcio-scommesse. C’era, come incolpato per il Calcio Napoli, il grande Italo Allodi. Venne penalizzato per un anno; poi la Caf lo prosciolse. Allodi pianse; era stata corretta una autentica «ingiustizia» sportiva. La responsabilità oggettiva calcistica si è sostenuto che è un «male necessario» perché è una sorta di «deterrente preventivo». È tempo che si esca da questa forma aberrante di giustificazione e si giunga a fare del processo sportivo, pur nella sua autonomia, uno strumento di intervento disciplinare non anomalo ma che eviti il più possibile, di ingenerare negli atleti, nelle società, nel pubblico l’idea che le leggi calcistiche non si debbano in alcun modo uniformare ai principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale. Ne va di mezzo la credibilità di quella che chiamiamo giustizia sportiva”.

Vincenzo M. Siniscalchi per “Il Mattino”

La Redazione

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