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Il neo presidente della Samp Massimo Ferrero si presenta: “La prima cosa che faccio è cambiare l’inno che fa schifo”

Caciottaro e amico personale di Sylvester Stallone. Cinematografaro e produttore di un centinaio di film che nessuno ha visto. Ex attore e nipote di una delle prime soubrette italiane. Istrionico e tagliente. Imprevedibile e giallorosso. «La prima cosa che faccio alla Samp è cambiare l’inno che fa schifo – irrompe – non come quello della Magica che è una delle cose più belle di Roma». Lo canta Venditti, un amico suo. Quasi tutti i romani dello spettacolo lo sono. Eccolo Massimo Ferrero, neo patron della Samp. Raccontarne solo uno è impossibile.

Per capirla la “Ferrereide” la devi rivivere passo passo e cercare di non farti fregare dalla sua oratoria che trasforma tutto in leggenda. I punti fermi sono che la moglie Laura Sini è ricca, erede di un impero di caseifici nel Lazio, e lui è furbo. Bassino ma furbo. Moglie e marito hanno cinque figli e sono soci nelle attività di famiglia: una sessantina di sale cinematografiche più altre società collegate.

È grazie ai quattrini di lei, accumulati con caciotte e pecorini esportati dal suocero negli Usa, se Ferrero ha potuto coronare il sogno del salto: da factotum di Cinecittà («sono nato in un teatro») a produttore di pellicole in proprio. Lo spartiacque è il 1998 quando lancia il primo film da indipendente. Non è memorabile, “Testimoni d’amore” non ripaga l’investimento. Ne seguono altre ugualmente trascurabili. Il successo vero arriva collaborando a film di miti come Tinto Brass, Bigas Luna, Mario Monicelli e Marco Risi, tutti «maestri e amici». Successo al botteghino ma anche contatti, malizia, arte che entra. Tutta roba che assorbe.

Romano di Testaccio, 62 anni, per tutti è “viperetta” perché all’altezza mini corrisponde maxi veleno quando serve. Il nomignolo non gli piace ma l’ha confermato mesi fa aggredendo in tribunale l’ex impero di un altro imprenditore vulcanico finito male, Vittorio Cecchi Gori. L’acquisto delle 11 sale dell’ex patron Viola, tra cui il gioiello romano Adriano, gli è costato la bellezza di 64 milioni e per ora ha disatteso l’impegno.

«Per ciascuna delle sale ci sarà un restyling, le faremo ancora più belle» aveva detto. Promessa non mantenuta. Non è la prima. Qualche decina di dipendenti dell’ex compagnia aerea Livingston lo insegue da tempo dopo il tonfo della sua gestione (proprio ieri ha patteggiato per il fallimento). Quando nel 2009 rilevò le quote fece un’intervista che rivederla oggi dice molto: c’è Ferrero che risponde svogliato quando l’intervistatrice gli chiede di rotte e rilancio dell’azienda e poi s’incendia felice quando mostra le nuove divise delle tre giovani hostess. «Vedete, abbiamo cambiato i colori…».

Istrionico. A tratti incontenibile. Come ieri quando a domanda sulle cifre per comprare la Samp è saltato in piedi tirando fuori le tasche vuote: «Questo è costata! – ha urlato – non ho più un euroooo!». Un attore, un guascone. Spiega che chi è partito da zero come lui «ha una marcia in più». Insiste che l’Italia deve tornare a sognare, che lui vede «opportunità dove gli altri rischi». Un po’ sognatore, un po’ spericolato.

Tra attrici e pecorini il business che lo ha fatto volare è ben piantato a terra: le sale cinematografiche sparse in tutt’Italia dove non c’è una settimana uguale all’altra. Tra notti bianche, proiezioni a 3 euro e grandi star invitate alle “prime” (su Twitter è in posa con Stallone, Quentin Tarantino e tanti altri «amici»), il vulcano Ferrero erutta idee di continuo. Idee e sogni. Oddio, spesso c’è pure qualche dipendente che protesta e gli fa causa. Poco male, Ferrero non si spaventa, è abituato ad aggredire ma sa difendersi.

E pure lui in fatto di cause non è un pivellino: quando anni fa gli attribuirono un ruolo nelle vicende dell’appartamento di Montecarlo del cognato di Gianfranco Fini, Giancarlo Tulliani, reagì denunciando mezzo mondo. E ora c’è il calcio, la nuova scommessa. Dice. «C’è una grande similitudine tra cinema e calcio, ecco perché sono entrato in questo mondo. Il pallone in Italia è come una fiction: ogni settimana c’è una puntata. Voglio imporre un nuovo modello calcistico partendo dallo stadio, che sarà la nostra arena».

Di “balun” forse non è aggiornatissimo: «I miei idoli? Herrera e Pelè». In fatto di dribbling è quasi Neymar però. «I soldi sporcano tutto, bisogna lasciar fuori i discorsi di soldi» insiste per sfuggire alla domanda sul conto a Garrone. Ai sogni dei tifosi figurarsi se uno così chiude la porta. «Cassano? Perché no! Certo che può tornare, lui o qualche altro campione. Chiederemo a Mihajlovic cosa ne pensa, lui è il miglior mister del mondo. È lui che deve darci il via. Io voglio vincere, non aspetto altro che venga qui De Laurentiis per batterlo. Finirà 3-1 per me». Guai invece chiedergli se compra per la visibilità del ruolo.

«Io che cerco visibilità io?! – si offende – vent’anni fa ero a Los Angeles, sono nato a Cinecittà, io sono nato e vissuto nella visibilità». Un po’ spaccone, un po’ poeta. Di certo non è banale. «Genova è una città felliniana, tutta così mossa, mare poi montagne poi un’altra cosa. La conosco, la amo, mi piace arrivarci da sotto la Soprelevata e vederla tutta pezzo per pezzo». E di certo non gli manca l’ego.

«Che film sarà questa mia nuova avventura? Un colossal, sarà Ben Hur» spacconeggia. Poi si dilegua quando s’imbrusca: «Se ero doriano? Avete notato, io rispondo a due domande e poi basta…». Nel cinema racconta di aver vinto tutto quello che c’era da vincere, in realtà nella sua bacheca campeggia qualche nomination ma anche due Telegatti.

È vero però che i film di Tinto Brass come li ha visti lui, da direttore e factotum del set, li hanno visti in pochi in Italia. Non è poco. “La Chiave” con Stefania Sandrelli è considerato il Santo Graal dei pensieri peccaminosi. E Massimo Ferrero era li, come tante altre volte. A guardare e far tesoro per il prossimo racconto da fare. «Un po’ ne ho viste, potete credermi, non vengo qui a fare brutte figure».

Fonte: Secolo XIX

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