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Delio Rossi: “Juventus e Napoli davanti alle altre”

L'ex allenatore viola: "Insigne insieme a Destro e Jovetic sono il futuro del nostro calcio"

Ricordando quel giorno, mercoledì, 2 maggio, risale alla mente un proverbio cinese: «Tutti vedono la violenza del fiume in piena, nessuno vede la violenza degli argini che lo costringono». Quel giorno, al 32’ del primo tempo, gli argini di Delio Rossi cedettero fornendo di lui una immagine non veritiera perché l’uomo è mite, sicuramente non violento. Ma quel giorno il fiume si ingrossò, varcò gli argini, si abbattè su Ljajic, un ragazzino impertinente che da provocatore (come sottolineò lo stesso Andrea Della Valle comunicando il licenziamento del tecnico) divenne vittima.  Da quel giorno Rossi è fermo: una lunga «vacanza» da un mondo a cui ha dato molto ma che gli ha anche chiesto molto. Eppure, quando parla di calcio, Delio ha la passione di chi a questo mondo ci si è accostato attraversando strade periferiche, categorie minori da calciatore e poi, da allenatore, la lunga salita, passando dalla periferia alle capitali, dal basso delle serie dilettantistiche all’alto delle promozioni in A, della Coppa Italia. Non reggi senza l’entusiasmo, senza l’idea che il calcio sia un luogo di sogni in cui tutti possono ritrovarsi un po’ bambini anche quando l’età viene sprecata in una inutile rincorsa al tempo che fugge. Guarda il calcio con l’attenzione di sempre, cercando di raccogliere quei dettagli che svelano le verità meno note. Non è mai stato banale, Delio. Ora che si porta sulle spalle quel ricordo, lo è ancora meno.  Questa è una chiacchierata di calcio: quel che è, quel che sarà, fuori dai pronostici. Perché nello sport contano la passione e la voglia di comprendere quel che c’è oltre il traguardo, il confronto quotidiano con il limite. Forse per questo lui dice che più che la partita gli manca quel lavoro giornaliero che trasferisce nelle mani di un tecnico il privilegio della creazione: di schemi, situazioni e calciatori.

Signor Rossi, le manca il calcio?
«Mi manca il lavoro settimanale, il giovane che vedi crescere giorno dopo giorno».

La domenica?
«La domenica è la conseguenza di quel che hai fatto in settimana».

Di quella domenica di «ordinaria follia» cosa le è rimasto?

«Io ho chiesto scusa a tutti, a Liajic, alla società, alla città, ai tifosi, all’Italia intera. Ho fatto qualcosa di brutto, da non ripetere, ma se non giustificabile quantomeno comprensibile nel momento, nella situazione. Sicuramente non sono stato furbo: qualche collega sarebbe stato più furbo di me».
Nel dopo cosa l’ha colpita di più?
«Ripeto, ho sbagliato ma ciò non toglie che qualche amarezza me l’abbia data una certa facilità di giudizio, i Soloni che parlano senza sapere. Personalmente evito di giudicare non conoscendo i fatti, persino rispetto alla vicende delle scommesse non avendo letto gli atti preferisco tacere».

Sulla vicenda una idea l’avrà.
«Mi dispiace che abbia avuto conseguenze negative sulla credibilità del nostro calcio. Non conosco gli atti ma di una cosa sono sicuro: in determinati comportamenti i soldi non sono una motivazione».

Cosa intende dire?
«Che alla base di certe scelte non c’è la voglia di guadagno ma la noia, la superficialità, le cattive compagnìe, l’idea che, vivendo in un mondo dorato, le regole non contino».
In queste due giornate che idea si è fatto del calcio italiano?
«Che dopo un periodo di vacche grasse siamo arrivati alla stretta finale. E’ significativo il fatto che persino club come Milan e Inter aspettino l’ultima settimana di mercato per completare il proprio organico».

Il campionato ai tempi dell’austerità.
«L’austerità è criterio di comportamento se è figlia della programmazione. Da noi è solo il prodotto del momento: il campionato comincia che il mercato non è ancora finito e chi ha perso la prima si affanna all’inseguimento di acquisti decisivi, chi, invece, ha vinto se la prende comoda».
Sarebbe meglio cominciare il campionato dopo la fine del mercato.
«Non c’è dubbio. Un tempo partivi con una squadra per il ritiro sapendo che quella sarebbe rimasta al settanta, ottanta per cento; adesso parti e al settanta, ottanta per cento sai che la squadra finale dipenderà dalle situazioni».

Poca programmazione?
«La programmazione l’ho vista in due squadre: Juventus e Napoli; gli altri sono stati un po’ estemporanei».

Perché?
«Hanno seguito una linea. Il Napoli ha preso un certo tipo di giocatori e giovani che potranno tornare utili anche adesso ma soprattutto in futuro. La Juventus ha puntato su giocatori sempre giovani ma già “costruiti”».

Si parla di campionato dei giovani. Scelta o necessità?
«Necessità. Le ristrettezze economiche hanno indotto a puntare su giocatori con ingaggi più bassi».

Nessuna folgorazione sulla strada del Barcellona.
«No, solo esigenze di bilancio. Eppure il nostro calcio avrebbe bisogno di una profonda riforma».

Lei cosa cambierebbe?
«Ridurrei il numero delle squadre professionistiche, introdurrei una fascia semiprofessionistica. La serie A e la serie B dovrebbero “dimagrire” scendendo a diciotto e venti squadre; la Lega Pro dovrebbe avere solo un campionato articolato su un paio di gironi. Settanta, ottanta squadre professionistiche sono più che sufficienti. E poi se veramente intendiamo puntare sui giovani dovremmo cominciare a ripensare tutta la storia dei campionati giovanili».
Cosa intende dire?
«La Primavera non è la seconda squadra».

Quindi?
«Un ragazzo della Primavera a meno che non sia un fenomeno, difficilmente è pronto per la prima squadra. Per risolvere il problema abbiamo solo due strade: o quella spagnola, della seconda squadra, o quella inglese del campionato riserve. Ho apprezzato l’allargamento della panchina». 

Perché toglie agli allenatori qualche castagna dal fuoco?
«Non è vero che i tecnici non abbiano la personalità per compiere delle scelte».

Allora?
«Le società ti mettono a disposizione “rose” di trenta giocatori. La tribuna viene vissuta come una bocciatura. Puoi anche promettere a un giocatore che lo manderai in campo il mercoledì, il risultato sarà sempre un muso lungo. La panchina larga tiene unito il gruppo e consente a tutti di sentirsi legati ai destini della squadra».

Degli arbitri d’area, invece, cosa pensa?
«Possono essere utili ma bisogna specificare meglio il ruolo. Resta un paradosso».

Quale?
«In un ambiente professionistico gli unici non professionisti sono gli arbitri. Eppure una loro scelta, al pari di quelle che in panchina compiono gli allenatori e in campo i calciatori, può spostare svariate decine di milioni. Il gol di Muntari, ad esempio: poteva essere il raddoppio del Milan e il campionato probabilmente avrebbe imboccato una strada diversa. Gli arbitri devono essere professionisti, ci deve essere una “aristocrazia” di quattro, cinque “professionisti” che dirigono le quattro, cinque gare più importanti».

Quali sono le squadre che più la intrigano?
«La Fiorentina che ha fatto l’unica cosa che poteva fare: la rivoluzione totale. E la Roma: ha aggiunto campioni a campioni reclutando giocatori idonei al gioco di Zeman. E a proposito di Zeman, c’è una cosa che trovo sorprendente». 

Cosa?
«Il suo posto è in serie A e invece è stato costretto a ricominciare dalla C. Zeman lo si può criticare, lo si può amare o detestare ma non si può fare a meno della sua diversità perché la diversità arricchisce sempre. Il nostro è un calcio di scelte casuali. Prenda i giovani tecnici. Se Ranieri non fosse andato male, Montella allenerebbe probabilmente ancora i Giovanissimi».

Eppure è strano: ci si aggrappa a un signore ultrasessantenne dato per finito per avere un “brivido”, un’emozione.
«Zeman è così da una vita: sa lavorare sui giovani, produce un calcio divertente. Risultato: lo avevano “dimenticato” in C. Io non sono sorpreso per il fatto che ora sia lì con il suo soffio d’aria nuova, sono sorpreso per il fatto che lì non ci sia stato per tanto tempo».

I giovani più interessanti?
«Insigne, Destro, per non parlare di Jovetic che è già affermato o Giovinco che è un gran calciatore da tempo ma che sembra essere stato scoperto soltanto ora. Una cosa deve essere chiara: non dobbiamo pretendere che questi ragazzi facciano tutte le domeniche gol a San Siro perché le maturazioni non hanno mai nulla di miracoloso». 

Fonte: Corriere dello Sport

La Redazione

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