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Hamsik torna nella sua Bratislava, che il vento cambi proprio lì dove tutto è nato?

Ma no, stavolta non c’è posto per il calcio, per le divagazioni tattiche, per le elucubrazioni tecniche, per galleggiare nella terra di nessuno e intorno al 4-2-3-1: perché no, oggi è sicuramente un altro giorno, e in quello sguardo perso nel vuoto si coglie l’umana ricerca di se stesso, della giovinezza, dell’infanzia di Marek Hamsik, che qui è «nato» e qui resta, con la testa in un pallone ad attraversare la vita che stavolta scorre lieta e va vissuta e accarezzata e sussurrata e osservata attraverso gli occhialini da professorino che esaltano quell’espressione seria, anzi vera da non mischiare con nient’altro, da ascoltare e dunque leggere, perché questa è una storia d’amare.

RICORDI. «Arrivai a quattordici anni e fu dura staccarmi dai miei genitori, dalla famiglia. Ho dovuto imparare a cavarmela da solo e a quell’età non è facile; l’ho fatto anche a Brescia, quando per la prima volta ho messo piede in Italia. Ma qui è stato lo strappo e qui c’è una parte del mio cuore. E’ una serata assai speciale per me, perché devo molto allo Slovan, a Hdrilcka e Bobik, i miei primi due allenatori, a chi mi ha dato la possibilità di arrivare sin qui. Io sono riconoscente a chi ha avuto un ruolo nella mia formazione, anche in quella dell’uomo che poi sono diventato».

RACCONTI. «Mentre volavamo, i compagni mi hanno sommerso di domande, volevano sapere cosa provassi, come mi sentissi. Ho raccontato quei momenti, che forse sono simili per tutti quelli che sono fanciulli e che sognano di diventare calciatori: io ce l’ho fatta e avverto strane sensazioni adesso, nel preparare questa partita così diversa dalle altre. Questo non è il mio stadio, non era quello dello Slovan, ma degli avversari dell’Inter di Bratislava, ma qui c’è una parte di me».

ATMOSFERA. «So che sono stati venduti circa novemila biglietti e che questo è in controtendenza con le recenti abitudini. Qui non succede spesso, spero che ci sia presto anche un nuovo stadio, ma sono convinto che stavolta sarà una gara particolarissima nella quale non mancherà lo spettacolo. Lo produrremo noi ma anche lo Slovan, però spero di vincere perché il calcio è questo. Non sarà una sfida decisiva, siamo appena alla seconda, ma avverto un clima magico intorno a questo match e so che affronteremo gente con tantissime motivazioni».

LA MATURAZIONE. «L’Europa League ha comunque un suo fascino e noi ci teniamo a far bene. Ma ci sono anche gli avversari, dei quali bisogna aver rispetto. Io li conosco bene, li seguo, so che non sono quelli che hanno perso con lo Young Boys in circostanze anche particolari. Il calcio a certi livelli comporta difficoltà che non possono essere previste: c’è una abitudine a difendersi che non è solo italiana, che va di moda, e ci sono antagoniste che hanno sempre tanti uomini al di là della linea del pallone. Ma io per stasera penso ad altro: alla mia gente, ai miei amici che saranno tanti, alla mia famiglia, a chi mi sta dimostrando il proprio affetto in maniera vistosa, facendomi sentire importante». Impossibile non volergli bene…

La memoria è un rettangolo ampio nel quale perdersi, uno spazio (quasi) infinito che parte dal 2007 e chissà dove arriva: non si diventa principe azzurro per convenzione, né per diritto divino, e nell’Hamsik che girella tra Castelvolturno e Piazza dei Martiri, c’è l’uomo che ha voluto, decisamente voluto, ergersi oltre la normalità. «Io e la mia famiglia qui siamo felici». Napoli è casa sua e traslocare, volendo, sarebbe stato un gioco: perché intanto, in questi sette anni che ora restano sommersi da quell’ombra che si sta allungando sul rendimento, non c’è stata una stella che non l’abbia illuminato, per provare a portarlo via. Il Chelsea e il Milan, l’Inter e il Liverpool, più di ogni altro Massimiliano Allegri e José Mourinho, con allusioni mica tanto vaghe e frasi per nulla criptate: l’avrebbero preso, eccome. L’Hamsik napoletano ha detto no, silenziosamente, scegliendo di metter tenda a due minuti d’auto da Castelvolturno, restandosene aggrappato alla città pure nei momenti difficili d’una rapina che avrebbe potuto spingere lui e sua moglie, entrambe vittima, a lasciarsi alle spalle quel clima. «Ma succede ovunque». E il mister X milanista, quel ragazzino nato «vecchio» che Allegri avrebbe vestito di rossonero, nel 2009, lasciò perdere, firmando il rinnovo con De Laurentiis su un foglio qualsiasi, un fazzolettino di carta, mica la modulistica federale. Poi l’altra Milano, quella che l’aveva perduto senza un perchè: Mourinho ce l’aveva con lui quando disse «io in Italia comprerei un solo giocatore» e a Moratti fu spiegato da De Laurentiis che Hamsik non aveva prezzo ma che se un giorno mai ci fossero mai state le condizioni, gli sarebbe stata concessa priorità. E invece la precedenza è sempre stata di Napoli, anche quando quelli del Chelsea s’aggiravano una domenica sì e l’altra pure al san Paolo: poi s’è rotto l’incantesimo, un anno fa, cinquanta giorni senza il calcio di Hamsik, un ruolo di inattacabile non più garantito – come da panchine e sostituzioni frequenti – ma comunque e sempre un legame quasi unico nel suo genere, in questo calcio che offre poche certezze ed ha ormai (quasi) rimosso le bandiere. Il capitano è Marek Hamsik, 251 partite in serie A e ducentocinquanta di queste con il Napoli, il quinto per presenze nella storia del club. La memoria è piena, non colma.

Fonte: Corriere dello Sport

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