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Il Mattino – Addio Ghirelli una vita da giornalista tra politica e sport

Quando scoccarono gli ottant’anni, a domanda Antonio Ghirelli rispose che, sì, avvertiva la sindrome da 90mo minuto: «Senti che ti possono salvare solo i tempi supplementari», precisò, stando al gioco della metafora sportiva. Poi, con la sua tipica attitudine al rilancio: «Ma sono pronto a giocarli fino all’ultimo secondo. E pure ad andare ai rigori». E così ha fatto. Ha continuato a giocarsi la vita come sempre, cioè scrivendo, alimentando la sua sconfinata curiosità per la realtà, infiammandosi per le cose della politica e del calcio, scrivendo articoli. Scegliendo di fare l’ultimo tratto di strada da giornalista con Il Mattino, il giornale della sua città, e alternando articoli di politica, sport, cultura, costume. Fino all’ultimo, su Matilde Serao, nell’inserto per i 120 anni del giornale: quando uscì, il 14 marzo scorso, lui telefonò al direttore dicendosi felice di aver partecipato così all’anniversario. Fino a ieri, finché non se n’è andato, alla soglia dei 90 che avrebbe compiuto il 10 maggio.
E non è solo che di figure come la sua non se ne vedono più in giro. Non è solo che il mestiere prevede sempre meno la possibilità di dare la stura a una gamma di espressioni poliedrica come quella da lui incarnata. È che proprio degli «Antonio Ghirelli» si direbbe perduto lo stampo. È che spaziare come lui dalla radio alla televisione alla carta stampata all’informazione politicienne, essere direttore di giornali sportivi e scrivere saggi come la memorabile Storia di Napoli einaudiana non solo non è cosa accessibile a molti, ma presuppone una qualità su tutti: uno straordinario, solare, napoletanissimo talento per la vita.
Alla soglia dei novanta, Ghirelli era ancora in grado di rifare con voce forte e chiara l’appello della sua Terza C al Liceo Umberto I di Napoli, dove aveva voti alti in tutto tranne che in condotta e il professore di Latino e Greco, Corrente, lo sgridava lagnandosi: «Ghirelli, Ghirelli, mi fai perdere la testa!». Suo compagno di banco era Compagna Francesco, poi c’era La Capria Raffaele e più avanti veniva Patroni Griffi Giuseppe. Quattro inseparabili da altri due delle classi inferiori, Barendson Maurizio e Napolitano Giorgio, con cui condividevano passioni e curiosità.
Ghirelli Antonio era tra tutti il più spigliato, ed essendo svelto di penna, sapeva già che avrebbe fatto il giornalista. La prima volta capitò per «Nove maggio» di Adriano Falvo, foglio dei Gruppi Universitari Fascisti di Napoli. Il debutto incoraggiò il detentore di quella penna scorrevole a non demordere e a cimentarsi nella critica cinematografica e teatrale. Passione condivisa con lo studente Napolitano Giorgio, che una volta interpretò un ruolo da attore in un suo atto unico. Vorace di occasioni com’era, si lanciò nei meandri inaspettati offerti dai Guf: «Mussolini li creò per sedurre gli studenti universitari e invece diventarono una fucina di antifascisti», raccontava Ghirelli soddisfatto con sorriso da gatto che ha mangiato il topo.
E sì che quel figlio unico di una semplice famiglia napoletana ne visse, di avventure e passioni. La spinta antifascista lo portò a ogni sorta di disobbedienza resistenziale e quindi a iscriversi al Partito comunista nel 1942. Dopodiché, a imporsi su tutti gli altri, fu l’amore per il giornalismo. Prendiamo uno spicchio della sua vita, che lui stesso raccontò in Una bella storia. Italia 1943-1956 (Avagliano 2003). Quanti altri possono vantare in un arco di 13 anni di aver: 1) annunciato alla radio la fine della guerra, peraltro insieme a un giovane Enzo Biagi; 2) scritto e diretto commedie radiofoniche, una delle quali galeotta fu, perché a interpretarla capitò la giovane e bella sua futura moglie, da lui ribattezzata Barbara; 3) debuttato nella carta stampata trovandosi conteso tra L’Unità, Milano Sera, Paese Sera; 4) tradotto le prime strisce di Disney; 5) litigato con Pajetta che nel 1948 su l’Unità fece il titolo «Ha vinto il Fronte popolare»; 6) rotto con il Pci nel 1956 dell’invasione dell’Ungheria; quanti?
Ghirelli era così, a una delusione cocente faceva seguire un nuovo grande amore, e il suo per il Psi fu, dopo il 1956, travolgente al punto da farlo approdare, nel 1978, a capo dell’ufficio stampa del presidente Sandro Pertini. Il rapporto con l’umbratile ex partigiano sfociò in una clamorosa rottura. Ghirelli ne ricavò un libro, Caro Presidente, e non smise di essere dalla parte dei socialisti, quindi contiguo alla politica craxiana, che curò come capo ufficio stampa di Bettino premier, destinandole una di quelle dedizioni fin troppo entusiastiche cui il suo temperamento talvolta lo esponeva. Incassò così, nel 1986, la direzione del TG2 dove per primo diede spazio alle conduzioni femminili. Dopo, venne la direzione de l’Avanti! in tempi in cui uno come Lavitola sarebbe stato impensabile.
Poi i libri, tanti, gli articoli. E infine e sempre, la sua napoletanità di caratura unica. Al punto da fargli dire: «È l’identità che sento più mia ed è una gran contraddizione. Vuol dire soffrire per la totale illegalità nella quale viviamo ma da qualche parte, dentro di me, anche arrivare ad amarla. È un popolo che sento mio anche quando fa lo ”scartiloffio”: è genio e cialtroneria».

Fonte: Il Mattino

La Redazione

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