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Napoli, la crescita è un obbligo: il rischio d’impresa mai considerato da De Laurentiis

Forse stavolta Aurelio De Laurentiis deve uscire dagli equivoci (dialettici ed operativi) con i quali ha deciso di convivere ed offrire soluzioni a se stesso, al manager che rappresenta, ad una società che sta implodendo e a una città che s’è accartocciata nella delusione per una Champions scaraventata nel cestino ancor prima di giocarsela. Forse ora Aurelio De Laurentiis deve interrogarsi su cosa sia il Napoli, su cosa possa ancora diventare, su come vada gestito in questa fase di (apparente) crescita, su chi siano gli uomini sui quali contare, su quali aree intervenire: però servono risposte concrete, prive di demagogia, razionali per un imprenditore moderno ch’è a capo di un’azienda atipica nella quale il sentimento e la passione vanno inseriti in capitoli di bilancio. Il calcio non è un cinepanettone, che dura per qualche settimane e dà frutti in due o tre week-end: e il Napoli, che ha sei milioni di tifosi sparsi nel mondo, non può vivere nella palude del mercato, per cento giorni prigioniero del preliminare della Champions: il rischio d’impresa è una voce che appartiene a chi guida qualsiasi società di capitali e gl’interventi vanno proiettati nel breve-medio-lungo termine attraverso la lungimiranza espressa nel decennio ormai alle spalle.

BUTTARSI VIA. Il Napoli s’è buttato via molto prima del san Mamés, l’ha fatto scegliendo di starsene sulla riva della Champions ad aspettare quel getto caldo di trenta-trentacinque milioni di euro, forse confidando negli dei e/o sopravvalutando se stesso e sottovalutando il pericolo di ritrovarsi fuori o forse addirittura ignorando qualsiasi elementare strategia, certamente legando il proprio futuro alla qualificazione. Ma il san Mamés non ha spalancato le porte d’un finale di mercato incandescente e anzi con l’avvio del processo suggerito dall’Athletic Bilbao De Laurentiis deve risolvere energicamente e con autorevolezza gli enigmi che inquietano e che lasciano (seriamente) scricchiolare il Napoli alle fondamenta: a giugno 2015, il contratto di Rafa Benitez non avrà il paracadute dell’opzione a favore della società ed un allenatore che avverte il senso della nostalgia per la famiglia, può non avere alcun obbligo morale (né contrattuale) verso chi ne ha deluso le proprie aspettative. Riconquistarlo, a questo punto, è una scelta. Il mercato ha poi rilanciato in De Laurentiis il sospetto che l’area tecnica, intesa come Bigon e lo scouting, vada riveduta e corretta ed il sostegno alla tesi di riflettere sugli uomini e sulla loro organizzazione è condivisa all’interno dell’area apicale del club che s’aspettava un ventaglio (pure piccolo) di alternative capaci di rompere gli indugi: un’idea seducente, insomma.

LIMITI. Complessivamente, il Napoli ha mostrato limiti oscurati in passato dai Cavani, dai Lavezzi, dagli Higuain, da Benitez: sostanzialmente, il Napoli ha voluto sfidare la sorte, lanciando la monetina proprio sul ciglio d’un vulcano: dieci anni non sono passati invano e dalla ceneri del Fallimento è risorta una società che però non può permettersi di specchiarsi in ciò ch’è stato ed ha il dovere di correre ad andatura incoraggiante. E’ innegabile che la burocrazia- e magari l’habitat – non favoriscano la costruzione d’un Centro Sportivo; è palese che non sia semplice accomodarsi ad un tavolo per provare a rendere civile il san Paolo; è legittimo imbattersi in difficoltà per allestire il canale televisivo, per sostenere adeguatamente, magari in assenza di talenti autentici, la favola della «scugnizzeria» ma tre mesi per passare da Mascherano e Gonalons a De Guzman e David Lopez non hanno decretato soltanto l’addio alla Champions League, ai soldi e pure al prestigio, ma hanno richiamato il Napoli al proprio dovere: evolversi non è un’esigenza, ma un segnale del destino.

Fonte: Corriere dello Sport

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