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Operazione «Nuovo San Paolo» ma avanzano caos e degrado

Se volete un corso accelerato di arte contemporanea andate allo stadio, al San Paolo, a piazzale Tecchio, a Fuorigrotta. Che ve ne fate del Madre? Qui, sulla piramide davanti alla Curva A potete ammirare opere da fare invidia a Jackson Pollock. Espressionismo astratto a più mani. Nei giardini tra la Cumana e la stazione Campi Flegrei le palme ridotte allo stato fallico dal punteruolo rosso potrebbero essere delle installazioni di Jeff Koons, nella sua fase cicciolina. La Waste Art (tradotta maccheronicamente: scarti, monnezza) in stile Robert Rauschenberg la trovate dovunque. E ovviamente c’è tanta arte di strada e graffiti, alcuni davvero belli.
Il Comune ha pronto un progetto di restyling da trecento milioni per cambiare faccia a questo spazio a metà strada tra il razionalismo anteguerra e il vandalismo delle eterne guerre che Napoli combatte (e le perde tutte) contro le malapartiane mosche. E quando sarà, sarà una boccata di ossigeno rigenerante. Qui la madre di tutte le battaglie si è combattuta per Italia 90, i Mondiali di calcio, che hanno lasciato una scia di Incompiute che continuiamo a pagare e una serie di opere travolte dalla zella cittadina. Questo è, comunque, l’epicentro dei ciclici orgasmi pedatori. Oltre gli ultras. Oltre tutto e dentro l’anima azzurra della città che si tinge sempre di grigio.
Gli scorci tra un settore distinti e una curva arrugginita sono quasi sempre lunari. Spazi recintati dove i ragazzi giocano a pallone. Eppure dall’altra parte della scalea di mattoni rossi, un belvedere sul nulla o meglio sul sottopasso ripieno di spazzatura come una crema rancida, dall’altra parte, in un analogo recinto, ci sono dei campetti, si suppone. Bisogna immaginarli. Al centro di un rettangolo rosso, il solito televisore scassato, totem diffuso dell’attuale stagione del rifiuto. Forse c’erano dei canestri o delle porte. Hanno rubato tutto, abbattendo le transenne. La pista di pattinaggio è vuota. Dalle altalene hanno portato via i seggiolini. Somigliano a scheletri di tepee dopo il passaggio del Settimo Cavalleria del generale Custer.
Bisogna farsi strada tra le auto parcheggiate e quelle che sfrecciano, tra un sottopassaggio e una scala che, spesso, escheriamente, non conduce da nessuna parte o in un cunicolo pieno di lattine di birra («Heineken e radiolina» sancisce una scritta), bottiglie di plastica e astucci del caffè Borghetti. Foglie secche, rami bruciati, cartacce a fasci. Non portano via nulla dal siglo de oro di Diego Maradona. Con un po’ di applicazione, scavando, potresti trovare anche una foto con dedica di Bruscolotti. E poi erba e fiori gialli selvatici che annunciano la primavera, tenacemente incastrati nella pietra. Il resto è monnezza che all’occorrenza serve a segnalare un cratere nell’asfalto. Un bel buco che l’immancabile parcheggiatore abusivo ha riempito con un bustone nero. «Se si vanno dentro ci restano secchi» spiega. Passano due asiatici imbambolati, vanno verso il Centro clinico per le dipendenze patologiche «La piramide». Se non sono strafatti stanno a rota totale. La palazzina dell’Asl si confonde con gli spazi dello stadio. Proprio nella rampa che porta ai garage hanno sistemato materassi e stracci. È il rifugio per la notte degli immancabili barboni.
Il San Paolo incombe con la sua solitudine troppo rumorosa. L’eloquenza, con il linguaggio della vergogna, l’incancrenita vergogna che, a dispetto di Marx, qui non è madre di nessuna rivoluzione, l’eloquenza sta tutta nel viscido strascìno di sporcizia che, vibrante dell’ammoniaca delle chiazze suppurate di urina, attacca il naso. Davvero qui vedi la città all’ultimo stadio, un non luogo che serve al transito delle masse di tifosi, spogliatoio di spoglie urbane. Così diventano un intonato sberleffo i pannelli oscurati del Forum delle Culture che ancora espongono la bandiera argentina e la scritta «Estadio La Bombonera. Buenos Aires», che tradotto non significa bomboniera (figuriamoci), ma fortino. È noto universalmente che non c’è pezzo della città che non viva sotto assedio.

Fonte: Il Mattino

La Redazione

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