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Pandev gioia e rabbia: la Supercoppa è stregata…

Era stato, fino a quel momento, un Pandev da otto, come i gol che aveva messo in fila dall’inizio della stagione, senza far troppa differenza tra squadre più o meno blasonate, dal Bayern di Monaco allo Sporting Braga, dal Bordeaux al Bayer Leverkusen. Dalla panchina gli facevano segno, otto-otto, a incorniciare la sua corsa di esultanza sul prato zuppo del Nido d’Uccello. Era stato un Pandev da otto, anzi da dieci, come i trofei che sognava di poter sommare in bacheca lui che in Italia è arrivato a nove, e sarebbe stato il secondo in tre mesi con la maglia del Napoli. Dieci come il voto che merita un gol che brillerà di luce propria, una prodezza che rappresenta la summa di una classe che raramente era sgorgata con tale continuità: lui accusato di essere incostante, lui accostato nei suoi primi anni italiani agli slavi più famosi, genio e sregolatezza, tanto da suscitare una volta la sua risposta piccata: «Io non sono slavo, sono macedone» . C’è tutta la sua classe, nel 2-1 del Napoli: la caparbietà nel credere nell’errore di Bonucci, la corsa verso l’area, la prontezza nel proteggere la palla, il corpo e il braccio a tenere a distanza il ritorno del difensore, la freddezza nel concepire ciò è diventata una sua specialità, lo scavino in corsa. E non solo concepirlo, ma realizzarlo, di fronte al portiere più forte del mondo, il piede sinistro a sollevare il pallone e scodellarlo nell’angolo opposto, a riportare avanti il Napoli.

Ci aveva creduto Goran, perché tutto il Napoli aveva meritato quel vantaggio, in un primo tempo di tenacia e freddezza, di organizzazione difensiva e micidiali ripartenze che lui e Cavani sanno elevare ad arte. Ci aveva creduto eccome, prima che qualche parola di troppo e l’espulsione capovolgessero il mondo, a lui e al Napoli.
Avrà modo di rifarsi in futuro, con quel piede e quella regolarità che a ventinove anni pare finalmente aver blindato, anche in una competizione che gli ha voltato le spalle per la quarta volta su cinque finali. Era il 2004, quando rimase sulla panchina biancoceleste nella Supercoppa tra Milan-Lazio che certificò lo strapotere rossonero, 3-0 con tre reti di Shevchenko. Era il 2009, quando alla vigilia della partenza per Pechino la Lazio lo lasciò a casa con Ledesma, vittime dello screzio con Lotito che lo avrebbe portato poi a gennaio ad andare all’Inter da svincolato: la Lazio battè proprio l’Inter, ma lui era a casa, quella Lazio non era più sua.
L’unica gioia nel 2010 con i nerazzurri a San Siro nel 3-1 alla Roma. Pronto a sfruttare un errore di Riise, fu suo il pareggio, poi ci pensò Eto’o con una doppietta. Goran era ancora con l’Inter al Nido d’Uccello nel 2011: rimase in panchina, a gioire anche allora per un primo tempo chiuso in vantaggio, prima della rimonta milanista con Ibra e Boateng. Infine la beffa di ieri, un gol pazzesco, il settimo alla Juve in quindici gare, otto anni dopo un dribbling con cui aveva irriso l’intera difesa bianconera e una bordata a fulminare Buffon. Anche quella volta, la Juve avrebbe rimontato. Una maledizione, un conto apertissimo: fra due mesi sarà di nuovo Juve-Napoli e lui ci sarà, con tanta rabbia in corpo e un sinistro caldissimo.

 

Fonte: Corriere dello Sport

La Redazione

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