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Quarto, nella lotta ai clan vince l’indifferenza

E così, a Quarto la partita più importante si è conclusa con il risultato peggiore. Venticinque spettatori paganti – di cui dieci tifosi della Sessana, squadra ospite – contro (almeno) quarantamila assenti: gli abitanti della città, uomini donne e bambini chiamati da giorni a raccolta con tutti i mezzi possibili, Facebook e macchina con altoparlante compresi, e invece rimasti ostinatamente a casa. O almeno lontani dallo stadio Giarrusso, lontani da quel progetto innovativo e (sulla carta) facilmente capace di trascinare entusiasmi, lanciato un anno fa dalla procura anticamorra.
Un progetto subito sostenuto (sulla carta) da istituzioni, intellettuali, operatori dello sport. Ieri a Quarto, sugli spalti dello stadio devastato appena pochi giorni prima da un gruppo di vandali e/o camorristi che per sfregio e/o per avvertimento s’erano portati via tutti i trofei collezionati nei tornei giocati in nome della legalità, ieri su quegli spalti si sono ritrovati in pochi, troppo pochi. Ieri, da quegli spalti deserti, troppo deserti per una giornata che era di pioggia e di freddo come tante – e che di certo non ha svuotato altri stadi in altre città – è arrivato un messaggio duro e amaro, un messaggio che dice l’esatto contrario di quel che avremmo voluto leggere e rilanciare. Ma che a maggior ragione abbiamo il dovere di ascoltare, commentare, considerare.
Dicono, quegli spalti deserti, che la partita la stiamo perdendo, un’altra volta, inesorabilmente. Che la paura è più forte, che l’indifferenza è ancora il rifugio più sicuro. Dicono, soprattutto, che non si può chiedere ai «tifosi» di tutti i giorni, alla gente normale, quella che esce per fare la spesa andare a scuola e magari cercare un lavoro, di pagare il biglietto della battaglia corale, prima che a mettersi in fila davanti alla cassa siano quelli che questa battaglia devono guidarla, con vigore e senza distrazioni. E invece guardiamola in faccia, la mattinata della disillusione allo stadio Giarrusso: zero striscioni, zero autorità, persino il gonfalone del Comune è rimasto negli uffici a prendere polvere. Il commissario prefettizio, un funzionario dello Stato residente fuori regione, aveva da santificare la festa a casa sua, dei rappresentanti di Provincia, Regione o altri Municipi neppure l’ombra. Solo i giornalisti, i fotografi, e i sempiterni esponenti delle associazioni volontarie – da Libera in poi – a stringersi nelle spalle in attesa di lanciare un altro slogan, di rianimarsi in un’altra più fortunata tappa, come una spompata compagnia di giro. Ha di certo ragione il pm Ardituro, a suo tempo inventore e regista dell’operazione di legalità che ha portato alla nascita della squadra di calcio antiracket: il territorio non è ancora pronto alla battaglia civile, la guerra alla camorra si fa ancora solo e soltanto nelle aule di giustizia. E così, senza supporter e senza risultati, questa iniziativa potrebbe finire con la fine del campionato. Qualcuno gli dimostri che siamo solo al primo tempo.

Fonte: Il Mattino

La Redazione

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